Transizione: in un mondo di scarsità energetica, il nostro bene più prezioso sono le relazioni umane. Se volete riassumere in poche parole questo movimento che non si fa riassumere, potrebbero andare bene queste.
Ieri sera ne ha parlato anche Report, noi da tempo siamo in contatto con le realtà che ne fanno parte e che contribuiscono a rendere la decrescita una strategia di cambiamento concreta.
di Deborah Rim Moiso - 13 Dicembre 2010
Il Movimento di Transizione, o delle Transition Towns, nasce nel 2005 in un angolo dell’Irlanda
Il Movimento delle città in Transizione, o delle Transition Towns, nasce nel 2005 in un angolo dell’Irlanda, il paesino di Kinsale, idillica via di mezzo tra le brughiere del Nord e una specie di Cinque Terre con yacht e baia, resa unica dalla presenza di una scuola di Permacultura (se non sapete cos'è la permacultura portate pazienza, ne parliamo la prossima volta).
Qui insegna un giovane ex-pubblicitario inglese, Rob Hopkins, che un giorno decide di far vedere ai suoi studenti un film di cui gli hanno parlato bene, una produzione americana che si chiama The End of Suburbia. Ed è qui che il nostro eroe dalle orecchie a sventola ha il suo 'Peak Oil Moment': insieme a tutti i suoi studenti torna a casa sconvolto e depresso all’idea che il nostro mondo, così com’è, non può andare avanti.
Lo dicono i limiti fisici di un pianeta tondo su cui si cerca di fare lo sviluppo lineare. Lo dicono gli ambientalisti da decenni. Ma a molta gente, incluso Rob, il concetto che "porta a casa" l'idea di quanto questo modello di sviluppo sia in crisi, è capire come funziona il picco del petrolio.
Il picco del petrolio in breve:
- il petrolio è una sostanza straordinaria, contenente un'energia superiore alle nostre immaginazioni. Ci ha permesso di arrivare a livelli mai visti prima nella storia di prosperità economica, produzione alimentare, crescita demografica, interconnessione, ricerca, movimento di persone, beni e così via;
- la nostra attuale società è completamente dipendente dal petrolio. Sul petrolio e sugli idrocarburi in genere si basano trasporti (e trasportiamo ogni cosa), produzione energetica, agricoltura (fertilizzanti, macchinari…), materie plastiche, medicinali, comunicazioni… tutto.
una società dipendente da una sola sostanza non è resiliente: in caso di shock non può adattarsi al cambiamento;
- siamo arrivati al picco della produzione petrolifera mondiale, probabilmente un paio di anni fa (ci sono motivi politico-strategici per cui saperlo di preciso è difficile). L'era del petrolio facile a buon mercato - e quindi dell'energia facile a buon mercato, è finita;
- e dopo?
Rob Hopkins, fondatore del Movimento delle Transition Towns, è un giovane ex-pubblicitario inglese
E dopo deve cominciare per forza di cose la decrescita. Qualcuno deve uscirsene con un piano, o meglio con una moltitudine di piani, per preparare individui, comunità, città e nazioni al dopo-picco. Senza poi dimenticare il modo in cui questa questione delle risorse si interseca con il cambiamento climatico. Più idrocarburi buttiamo in atmosfera, più incerto diventa il nostro futuro sul pianeta. Un circolo vizioso che ci obbliga ad immaginarci un'altra via.
Torniamo quindi a Rob, che dopo poco ritroviamo a casa sua, nel Devon, in Inghilterra, dove comincia a cercare di accorpare pezzi di metodologia presi da varie fonti, dal marketing alla psicologia, all'ecologia profonda, per vedere quali ingredienti poter mettere insieme per costituire un percorso di discesa energetica condiviso e partecipato, a partire dall'esistente.
Quest’ultima questione, 'partire dall'esistente', non è un dettaglio da niente. Il percorso di transizione si differenzia qui dal 'cugino' movimento degli ecovillaggi, asserendo che a fianco di esperienze che fondano comunità in un certo senso 'partendo da zero' vanno necessariamente creati anche percorsi che lavorano sulla comunità esistente -
e sui talenti, le conoscenze e le capacità che in quella comunità già ci sono.
Il Manuale pratico della Transizione è un potente riassunto di buone pratiche da applicare 'dal basso'
Nasce così il Manuale pratico della Transizione (che si trova anche in Italiano, pubblicato da Arianna Editrice), un potente riassunto di buone pratiche da applicare 'dal basso' per immaginare, insieme ai propri vicini, il futuro della propria comunità. Partendo da una cognizione informata di come stanno le cose nel nostro mondo oggi, ed unendo a questa lucidità un forte senso dell'importanza di una visione positiva. E poi lavoro sul gruppo, con strumenti di democrazia partecipata, come l'Open Space, che rimettono le decisioni nelle mani della saggezza che nasce dall'unione di tante teste, tutte diverse.
Molte attività pratiche, per riappropriarsi del 'saper fare' che ci sosteneva in tempi di scarsità e ci arricchiva la vita, sempre (l'abbondanza è al supermercato o nelle marmellate fatte a mano?). E anche una transizione personale, interiore, perché se al cuore della nostra forza ci sono le reti di persone questo significa apertura verso gli altri, inclusione e confronto, tutte cose che possono spaventare e metterci in crisi.
Ma sempre con il sostegno del gruppo, perché in un gruppo si cambia meglio e con meno fatica, spezzando il senso di isolamento e di impotenza che spesso accompagna la vita di chi vuole avere una parte attiva nella società.
Monteveglio è la prima Transition Town italiana
In Italia le città di Transizione sono oggi una dozzina (ma tantissimi altri sono i posti dove "ci stanno pensando"), a partire dal paese 'pioniere', Monteveglio (BO), dove si organizzano incontri, corsi, orti, progetti e convegni e dove anche il consiglio comunale è entrato, con una storica direttiva, 'in transizione' (ma, attenzione, è stato il Comune ad aderire, rispondendo ai positivi risultati ottenuti dall'associazione). Il blog di riferimento della rete nazionale è Transition Italia, dove si possono trovare informazioni, risorse, video, approfondimenti e un calendario degli appuntamenti... e qualche idea per come cominciare a fondare un gruppo di transizione nella propria zona.
Una delle prime realtà ad aderire, San Lazzaro di Savena, ha cominciato formando un gruppo di lettura per approfondire insieme il Manuale di Hopkins. In molte altre esperienze si è partiti dai cineforum, incontrandosi per vedere e poi discutere di un documentario (geniali i Transition Kino di Ferrara), oppure sono stati i GAS ad aggiungere gruppi di transizione alle proprie attività, mentre dalla rete nazionale si sono rese disponibili persone per tenere Transition Talks, ovvero incontri di presentazione (il contagio tra gruppi vicini è fondamentale).
Ma a Lame, un quartiere di Bologna (eh già perché ci sono Città di Transizione ma anche Transition Paesi, Isole... e Quartieri) sono invece partiti dal teatro, per cercare nella creatività l'energia per progettare la discesa energetica e perché, come ho sentito dire in un’intervista da un membro di Transition Japan, "if it's not fun, it's not sustainable" (se una cosa non ci fa stare bene, se non ci divertiamo facendola, ma come può essere sostenibile?)
Permacultura, ovvero l’amore verso la terra
RispondiEliminaSi sente spesso parlare di permacultura, ma in pochi sanno veramente che cosa sia.
Permacultura, che è anche alla base del sistema delle città in transizione
di Irene di Carpegna - 30 Dicembre 2010 -
Penso che, come me, molti lettori, condividano l’amore per la natura in tutte le sue manifestazioni e desiderino fare del proprio meglio per preservarla non solo per se stessi, ma anche per le generazioni future.
Si tratta di un’esigenza etica che guida molte aziende agricole italiane a non fare uso di sostanze chimiche di sintesi e a produrre seguendo le regole dell’agricoltura biologica. D’altra parte possiamo renderci conto che anche con i nostri consumi incidiamo sull’ambiente in modo più o meno irreparabile, per esempio accumulando rifiuti non biodegradabili.
Troppo spesso però i movimenti ambientalisti e animalisti ci hanno proposto solo modelli negativi, indicando cioè soltanto cose da non fare e limitazioni che finiscono per ottenere un effetto frustrante e deprimente in chi, desideroso di fare qualcosa, si imbatte in mille vincoli.
Mi è sembrato per questo particolarmente positivo l’incontro con la permacultura, come risposta a questo “cortocircuito” fra il desiderio di tutelare l’ambiente e la legittima esigenza individuale di trarre dall’ambiente sostentamento per sé e per la propria famiglia, nonché reddito dalle attività agricole.
Questo metodo offre, infatti, una maniera moderna e creativa per recuperare il sapere antico delle nostre origini contadine aumentando la redditività del nostro lavoro e contemporaneamente salvaguardando il pezzetto di natura su cui interveniamo, anche grazie a un buon uso della tecnologia e dell’immaginazione.
Esistono dei principi da seguire che sono in gran parte frutto del buon senso insito già in ciascuno di noi, e quindi soltanto da riscoprire.
Vi racconterò pertanto quello che ho imparato dall’insegnamento di Richard Wade, docente della Scuola di Pratiche Sostenibili di San Giuliano Milanese, e fondatore dell’ Istituto di “Permacultura Monsant” di Arbolì in Catalogna (Spagna).
Ma andiamo con ordine, partendo dalla parola “permacultura”, che significa “cultura permanente”.
Questo termine è un’evoluzione del precedente “permacoltura”, cioè (agri)coltura permanente, scelto per indicare un approccio diverso dell’uomo alla natura, non più quello predatorio, tipico delle monocolture annuali, ma collaborativo in modo permanente e duraturo. Un metodo che privilegia la piantumazione di alberi ed erbacee perenni, ricreando un equilibrio complesso che, col passare degli anni, ha sempre meno bisogno di interventi da parte dell’uomo, ed offre sempre più frutti.
RispondiEliminaÈ così che da un certo modo di fare agricoltura discende in realtà una “rivoluzione” culturale che coinvolge tutti gli aspetti della vita umana: l’utilizzo delle risorse energetiche, il tipo di consumi da favorire, il modo di costruire e di abitare, lo scambio e l’interazione con gli altri esseri umani, etc. Da qui dunque l’evoluzione del termine “permacoltura” in “permacultura”.
Ora, per vedere in sintesi com’è strutturato questo metodo, non c’è niente di meglio che partire dai 3 principi di base che ne costituiscono l’etica:
1- aver cura del pianeta;
2- aver cura delle persone;
3- limitare il nostro consumo alle nostre necessità;
Bill Mollison, il fondatore della permacultura, aveva scoperto in tanti anni di osservazioni sulle foreste, che insieme alle zone umide, non esistono altri sistemi naturali più produttivi e che qualsiasi intervento umano comporta una perdita di biodiversità e un impoverimento delle risorse. Ha iniziato così a sperimentare tutti i metodi possibili per assecondare la natura in modo da riportarla a distribuire con abbondanza i suoi frutti.
Per praticare la permacultura non occorre certo arrivare a conseguenze estreme come ritornare a vivere nei boschi cibandosi di bacche e coprendosi con pelli di animali selvatici, ma, piuttosto, considerare le conseguenze sull’ambiente di ogni nostra azione e favorire la ricchezza vegetativa naturale in ogni angolo del nostro pianeta, questo sì!
Infatti, la regola cardine della permacultura è: prendersi la responsabilità per se stessi. Se non puoi fare questo, non puoi fare permacultura.
Ed è questa una piccola-grande rivoluzione perché sposta la nostra attenzione dai massimi sistemi – dalle multinazionali che inquinano, dai governi che non fanno le leggi giuste, dai comuni che non fanno la raccolta differenziata dei rifiuti, etc. – per centrare il problema su noi stessi.
Da qui discende un altro principio della permacultura: agisci con e non contro. Questo principio si riferisce senz’altro alla coltivazione, ma anche ai rapporti interpersonali.
I grossi problemi del mondo - il surriscaldamento del pianeta, l’effetto serra, il disboscamento dissennato, la desertificazione, la penuria d’acqua, l’inquinamento ... - esistono, ma finché ci muoveremo soltanto “contro” qualcosa, consumeremo molta energia con scarsi risultati e vivremo troppo spesso con un senso di frustrazione addosso. Occupandoci continuamente di quello che non va, passeremo buona parte del nostro tempo in stretto contatto con i lati peggiori dell’uomo - avidità, prepotenza, mercificazione, violenza, etc. - che suscitano in noi rabbia, indignazione o depressione. Immagazzineremo, cioè, ogni giorno tante esperienze frustranti che metteranno a dura prova le nostre qualità migliori (la tolleranza, la fiducia, l’amore...), indebolendo la nostra pulsione vitale.
La denuncia e la contestazione sono necessarie, ma le proposte alternative molto di più. E come puoi pretendere che gli altri cambino se tu, in prima persona, non cominci?
Se partiamo dalla nostra vita quotidiana, dal nostro piccolo orticello, applicando su noi stessi i nostri principi, ecco che le cose prenderanno una piega diversa.
Se da solo non posso certo cambiare il mondo, posso però cambiare il mio giardino, il mio orto, il mio balcone, il mio rapporto con il vicino di casa, con i miei clienti, con i miei figli, con l’edicolante, con il barbiere... e le mie azioni positive saranno un nutrimento gratificante per me e per tutti coloro con cui ho a che fare. È questa in fondo l’applicazione concreta del principio: avere cura delle persone.
RispondiEliminaSi può creare così, a partire dai singoli, una rete di contatti in grado di contagiare positivamente sempre più persone. In tal modo, inevitabilmente, più individui si sensibilizzeranno a questi principi etici, meno seguito e meno spazio avranno i governi corrotti, le multinazionali del business, gli inquinatori etc.
Inoltre, collaborando con altre persone su progetti concreti, è possibile realizzare alternative efficienti e positive che possono poi essere replicate altrove allargandone sempre di più gli effetti.
Fonte: Terranauta.it