(Fonte articolo, clicca qui)
Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini manifesta da sempre una curiosa
concezione dei compiti del suo dicastero. È come se per lui l’obiettivo
non fosse difendere l’ambiente da chi inquina, ma tutelare le industrie
dalle seccature di natura ambientale. Dunque, se risultasse confermato
che l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva di
Taranto, Girolamo Archinà, lo ha definito in una telefonata
intercettata “uomo nostro”, Clini avrebbe tutte le ragioni di
respingere ogni insinuazione riferita a qualcosa di opaco nel suo
comportamento. Quella di Archinà (fine teorico dell’inquinamento
dell’Ilva come “fenomeno mediatico di allarmismo assolutamente
spregiudicato”) appare semmai come una pura, limpida, trasparente
constatazione. Clini, 65 anni, medico del lavoro veneziano, pupillo del
boss socialista Gianni De Michelis che lo ha proiettato vent’anni fa
alla direzione generale dell’Ambiente, lasciata lo scorso novembre per
diventare ministro, è un’icona dei liberisti. L’Istituto Bruno Leoni,
tempio dell’impresa libera da lacci e lacciuoli statali o statalisti,
lo annovera tra i suoi senior fellows. Nel curriculum di Clini spicca
la sorda opposizione al protocollo di Kyoto, con la quale nel 2001 fece
saltare i nervi al presidente del Consiglio dell’epoca, il suo compagno
socialista Giuliano Amato, che pure non figura tra i talebani
dell’ecologia. Ma i sacerdoti del liberismo dovrebbero spiegare al
popolo dei fedeli che cosa c’entri con Adam Smith il riflesso
pavloviano di mettere mano al portafoglio dello Stato (di Pantalone,
direbbero a Venezia) ogni volta che un’azienda, per risparmiare,
inquina. Clini questo riflesso ce l’ha, e nel governo Monti è in buona
compagnia se è vero che, prima ancora di chiedere all’Ilva che cosa
pensa di fare per ridurre l’inquinamento ed evitare così il blocco
degli impanti, è riuscito a far approvare a passo di carica un decreto
legge con cui lo Stato pagherà 336 milioni di euro per la bonifica del
letamaio cancerogeno depositato per decenni sulla sfortunata terra di
Taranto. Ma Clini è fatto così, e se l’ottantaseienne industriale
Emilio Riva e i suoi guardaspalle lo considerano “dei nostri”, hanno
tutte le loro legittime ragioni. Perché adesso è tutto un correre,
tutta un’emergenza, e giustamente, perché i severi custodi del
ministero dell’Abiente solo oggi scoprono che a Taranto ci sarebbe un
problemino. Ma già nel 1995, diciassette anni fa, Riva aveva problemi
di inquinamento, e Clini volò in soccorso delle ragioni dell’industria.
L’industriale milanese, che aveva appena comprato il centro siderurgico
di Taranto, aveva già da anni la proprietà del centro gemello, quello
di Genova-Cornigliano. Inquinava, e a Genova glielo volevano far
chiudere (diciassette anni fa). Clini, direttore generale del ministero
dell’Ambiente, corse a una riunione con l’assessore regionale ligure
Giuliano Gallanti e con lo stesso Riva, ed estrasse dal cilindro la
soluzione: “Sarà lo Stato a finanziare, attraverso suoi fondi e con
finanziamenti Cee, la bonifica e l’adeguamento alle norme di rispetto
ambientale dell’impianto, in particolare della cokeria, le cui
emissioni sono considerate gravemente inquinanti”. Già, la cokeria,
proprio il reparto oggi nel mirino a Taranto. Leggete come quel giorno
(23 marzo 1995) l’Ansa raccontava i benefici effetti della cura Clini,
e stropicciatevi gli occhi: “Dopo anni di prescrizioni disattese (la
Regione ha più volte diffidato l’azienda indicando opere di bonifica,
mai realizzate), con l’intervento e l’impegno finanziario dello Stato
l’industriale Riva s’è dunque dichiarato disponibile a rinnovare
l’impianto”. Diciassette anni dopo il copione si ripete a Taranto.
Con
l’alibi dell’emergenza sociale (alcuni magistrati cattivi vogliono
ridurre sul lastrico gli operai bloccando gli impianti Ilva) Clini
corre in soccorso dell’industria scaricando sui contribuenti parte dei
suoi costi.
Come spiegò nel marzo scorso, dopo un vertice sull’Ilva con
il governatore pugliese Nichi Vendola, “dobbiamo tener conto che queste
strutture industriali devono competere col mercato globale dove i costi
sono una delle chiavi della competizione”. E’ il mercato bellezza. Ma
all’italiana. E Adam Smith si rivolta nella tomba.
Nessun commento:
Posta un commento