ATTENZIONE, PROSSIMI APPUNTAMENTI IN PROGRAMMA
E INVITI PER TUTTA LA CITTADINANZA DEI CASTELLI ROMANI:
- 10 LUGLIO ORE 18:00 ASSEMBLEA CITTADINA AGGIORNAMENTO VERTENZA INCENERITORE E DISCARICA PRESSO VIA S.BERARDI MARSI 32 MONTAGNANO DI ARDEA
- 12 LUGLIO ORE 9:00 ALLE ORE 12:00 PRESIDIO CITTADINO SOTTO AL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO/INDUSTRIA A ROMA, VIA MOLISE 2, IL TUTTO PER NON FAR AVERE ALL’INCENERITORE DEI CASTELLI ROMANI I SOLDI PUBBLICI (DELLA CITTADINANZA)
(Fonte articolo, L’Espresso, clicca qui)
Gli imprenditori della monnezza non sentono crisi, anzi: guadagnano
sempre di più. Dal potentissimo Cerroni alla famiglia Grossi, legata a
Cl. Amici di tutti i politici, escono sempre indenni da scandali e
indagini giudiziarie.
Guadagnano milioni di euro ripulendo le
nostre strade, gestiscono attraverso monopoli centinaia di migliaia di
tonnellate di spazzatura, controllano discariche grandi come città,
investono nell’affare degli inceneritori, trattano con i politici e le
amministrazioni locali, finiscono – spesso – nelle inchieste della
magistratura per reati ambientali e corruttivi. Sono i signori della
monnezza “made in Italy”, un pugno di imprenditori che da anni si
spartisce un business che vale miliardi di euro l’anno, grazie a uno
Stato che ha di fatto deciso di affidare ai privati un servizio
pubblico strategico. In un paese, il nostro, dove il ciclo integrato
dei rifiuti resta una chimera, i livelli medi di raccolta differenziata
sono al palo e le emergenze – soprattutto al Sud – non sono
l’eccezione, ma la norma.
IL SUPREMO DI MALAGROTTA. Se si volesse
stilare una classifica virtuale degli uomini più potenti del settore,
al primo posto ci sarebbe senza dubbio il laziale Manlio Cerroni, il
proprietario di Malagrotta, la più grande discarica d’Europa estesa
come 150 campi di calcio. Un ultraottantenne nato nel borgo di
Pisoniano nel lontano 1926 (è stato tre volte sindaco del suo paese,
nonché sponsor della squadra di calcio) chiamato da ex dirigenti
regionali, in alcune intercettazioni ancora secretate, «il Supremo». Un
nomignolo che dice tutto. Perché Cerroni, oltre a Malagrotta, controlla
termovalorizzatori, discariche e impianti di trattamento rifiuti non
solo nel Lazio e in altre regioni italiane, ma in giro per il mondo. Il
suo regno si estende dall’Argentina all’Australia, passando per
Brasile, Egitto, Oman e Lituania. Oggi, secondo stime prudenziali, il
valore del gruppo potrebbe superare i due miliardi di euro.
L’imprenditore, carattere ruvido e spregiudicato, tratta monnezza da 66
anni. In una lettera spedita a chi scrive, spiega di considerarsi «un
self-made man: dai miei colleghi» dice «sono considerato il numero uno,
per creazione, per impegno, per lavoro, per esperienza». “L’Avvocato”,
come lo chiamano i suoi dipendenti, nonostante l’età continua a gestire
tutto in house, con la collaborazione delle due figlie e di pochi,
storici collaboratori. Il suo nome è diventato noto negli anni
Settanta, quando riuscì a mettere le mani su un “grande buco” vicino al
Raccordo anulare, una cava esaurita di ghiaia e sabbia usata nel
dopoguerra per la costruzione dei quartieri della Tuscolana e
dell’Appia nuova. La discarica viene inaugurata nel 1978 (al tempo,
sussurra qualcuno, l’Avvocato aveva ottimi rapporti con la Dc) e da
allora i politici di destra e di sinistra, dai peones locali ai
ministri, hanno dovuto fare i conti con lui, consapevoli che se
“l’ottavo re di Roma” avesse deciso di chiudere bottega, la Capitale
sarebbe sprofondata nel suo pattume in poche ore. «Malagrotta è stata
la fortuna e la salvezza di Roma, facendo risparmiare ai romani oltre
due miliardi di euro rispetto alle quotazioni di mercato», ripete
Cerroni a coloro che osano criticare il suo macroscopico monopolio. Se
nel corso dei decenni si sono accumulate decine di denunce per
inquinamento, le inchieste – va ricordato – non lo hanno mai scalfito.
Almeno finora: come “L’Espresso” ha raccontato qualche mese fa,
infatti, l’Avvocato e i suoi fedelissimi sono finiti nel mirino dei pm
di Velletri, che hanno aperto un’inchiesta su un impianto localizzato
ad Albano ipotizzando reati gravissimi, come associazione a delinquere
e concorso in truffa ai danni dello Stato. Il pm nel 2012 chiese
addirittura gli arresti, ma il gip dichiarò la propria incompetenza
territoriale girando il fascicolo ai colleghi della procura di Roma,
che oggi indagano anche sulle vicende di Malagrotta. «Mi sarei
aspettato» scrisse a Cerroni a “l’Espresso” dopo l’articolo sulle sue
disavventure giudiziarie «che una “carrozza” ci avesse portati in
Campidoglio per ricevere dal sindaco un grazie per quanto fatto dalla
città, come nell’antica Roma. E invece, altro che carrozza! Mi ritrovo
sbattuto nel girone dei delinquenti… l’unico appellativo che mi si
attaglia è quello di benefattore!». Per la cronaca, Malagrotta – che
per legge dovrebbe essere chiusa da anni – ha ottenuto giorni fa
l’ennesima proroga.
AFFARI GROSSI. Se Cerroni è il ras
incontrastato nel Lazio, in Lombardia comanda la famiglia Grossi. Il
fondatore della Green Holding è il mitico Giuseppe – scomparso poco
tempo fa – per decenni a capo di un gigantesco impero economico fondato
su discariche e bonifiche. Schivo, dai modi sbrigativi, Grossi – il cui
scettro è ora passato alle figlie – era legato a doppio filo con
Comunione e Liberazione (quando nel 2009 fu arrestato, davanti la sua
cella c’era la fila di politici che volevano andarlo a trovare, da
Maurizio Lupi a Gabriele Albertini) e all’ex governatore Roberto
Formigoni. Salì agli onori della cronache alla fine degli anni Novanta,
quando riuscì ad acquistare il colosso americano Browning-Ferris
Industries, punto di partenza per l’assalto al mercato dei servizi
ambientali. Da allora il gruppo ha macinato appalti a go-go, gestendo
(attraverso una complessa holding con il cuore finanziario nei paesi a
fiscalità privilegiata) discariche per rifiuti pericolosi, invasi per
rifiuti urbani e l’inceneritore di Dalmine, in provincia di Bergamo.
Quando la procura di Milano lo arrestò per la vicenda della bonifica
mancata di Montecity nella sua villa trovarono un piccolo tesoro: sei
milioni di euro in Rolex pregiati, una collezione di Ferrari e altre
auto di lusso, senza parlare di ville e terreni sparsi in tutt’Italia.
Gli ex manager che lo hanno conosciuto lo ricordano come uno tosto:
«Qualcuno lo considerava un parvenu del settore ambientale, e lui non
perdeva occasione di mostrare ai concorrenti quanto fosse duro: era uno
che non faceva prigionieri». Ad affiancarlo nella gestione della
monnezza aveva chiamato al suo fianco Cesarina Ferruzzi, conosciuta
nell’ambiente come “Madame Dechets”. Di lei, “la signora della
spazzatura”, Grossi si fidava come nessun altro: tecnico ambientale che
iniziò la sua carriera riportando in patria con la Jolly Rosso i
rifiuti tossici sparsi in Libano dagli italiani alla fine degli anni
Ottanta, diventò poi la sua alter ego, tanto da finire anche lei
coinvolta nell’inchiesta milanese sulla bonifica di Montecity. Ne è
uscita con un patteggiamento.
CI MANDA MARCELLO. Anche Giovan
Battista e Pier Paolo Pizzimbone, i ras liguri della monnezza, hanno
amicizie che contano. Supporter di Silvio Berlusconi, possono contare
sul rapporto quasi fraterno con Marcello Dell’Utri. Per i maligni,
conoscenze necessarie per trasformare una piccola cooperativa di
Vercelli in un gigante che controlla una fetta importante del business
dei rifiuti solidi urbani. I Pizzimbone sono liguri di origine, ma
siciliani di adozione. Capiscono presto che per fare carriera bisogna
masticare monnezza e politica. La passione per la spazzatura è
ereditaria (è il padre il primo ad entrare nel business), ma sono loro
a spiccare il volo: dopo aver ottenuto il predominio a Imperia e nella
Liguria, nel 2004 comprano la Aimeri, con cui invadono decine di Comuni
al Nord incluse le città rosse della Romagna. Vincono poi due
maxi-appalti al Sud, quelli per la raccolta e lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani a Caltanissetta e a Catania. Sarà un caso, ma il
volto politico della famiglia, il quarantenne Pier Paolo, sarà primo
dei non eletti per il Pdl nel collegio catanese alle elezioni del 2008.
L’esperienza siciliana dei fratelli Pizzimbone, però, ha alternato alti
e bassi: alcuni dipendenti delle loro aziende in provincia di Catania
sono infatti finiti in guai giudiziari a causa della (presunta)
vicinanza a Cosa nostra. Il 26 aprile scorso la Dia di Catania ha
sequestrato un milione di euro a Roberto Russo, già responsabile
tecnico-operativo di una delle società dei Pizzimbone, ritenuto dagli
investigatori a capo di «un complesso meccanismo di traffico illecito
di rifiuti in forma organizzata». Lo scorso fine maggio un’altra
tegola, stavolta finanziaria: i 14 comuni catanesi che si servivano
della Aimeri hanno deciso di rescindere il contratto. Motivazione: un
servizio «assolutamente inefficiente». Pietro Colucci, napoletano di 53
anni, è invece specializzato nella gestione dei rifiuti industriali.
Insieme al fratello Francesco, ha costruito il suo colosso partendo
dalla raccolta della spazzatura in Campania. Terra difficile, dove le
aziende spesso rischiano di essere infiltrate dai clan, attirati da
guadagni a sei zeri. Insieme al fratello Francesco, Pietro fonda una
piccola azienda a San Giorgio a Cremano, ma nel 2000 sono già così
forti da poter mettersi in tasca la Waste Management Italia, colosso
del settore acquistato in cordata con la famiglia Fabiani
dell’Italcogim. «Nel 1996, però, decidemmo di lasciare la Campania –
spiega Pietro a “l’Espresso” – Quando mio fratello volle tornare, ci
siamo separati». Con il gruppo Unendo Francesco resta nel business dei
rifiuti urbani, mentre Pietro punta tutto sulle energie rinnovabili e
sulla gestione degli scarti non pericolosi delle industrie. Per il
fratello anziano è una fortuna: una delle aziende di Francesco, la
Daneco, da due anni e mezzo è infatti al centro dell’inchiesta della
Procura di Milano sul recupero dell’area ex Sisal di Pioltello.
Un’inchiesta ha colpito anche il terzo fratello Nicola, che siede nel
consiglio di amministrazione della discarica Ecoambiente a Latina, dove
è indagato per avvelenamento delle acque insieme al braccio destro di
Cerroni Bruno Landi. Anche ricostruendo la storia dei Colucci sembra
che per trasformare in oro la monnezza sia necessario – oltre al
know-how, alla capacità imprenditoriale e ai capitali – avere buoni
rapporti con i politici. «Una decina di anni fa le diverse società del
gruppo hanno ampiamente finanziato prima Forza Italia e poi Alleanza
nazionale» ammette Pietro, «Ma pagavamo anche le feste dell’Unità,
sempre in maniera legale e trasparente». A che servivano queste
donazioni? «A nulla: per noi era solo una questione di visibilità». Se
Francesco può vantare ancora oggi una solida amicizia con Gianfranco
Fini, Pietro, da parte sua, non nega il suo stretto rapporto con Edo
Ronchi, l’ex ministro verde degli anni ’90, suggellato attraverso la
partecipazione alla Fondazione Sviluppo Sostenibile: «Edo? Certo che lo
conosco: è un amico e un galantuomo».
VERDE LEGA. Nella lista dei signori
della monnezza più influenti c’è di tutto. Il leghista Giovanni Fava,
onorevole dimessosi poche settimane fa perché chiamato da Roberto
Maroni a fare l’assessore all’Agricoltura della Lombardia, ha una
sfilza di cariche e quote nelle società Econord snc, Econord servizi
ambientali srl, Palladio team Fornovo srl, Palladio team spa, Programma
ambiente spa e Team ambiente spa, tutte dedicate allo smaltimento e ai
rifiuti; in Calabria, invece, uno degli imprenditori più in vista è
Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio e gestore – attraverso
le società controllate dalla holding di famiglia, la V&V group –
della grande discarica ìdi Columbra. Vrenna, che è stato anche
vicepresidente della Confindustria regionale, qualche anno fa è stato
accusato di concorso esterno in associazione mafiosa dalla Dda di
Catanzaro, accusa dalla quale è stato assolto in appello. Anche in
Puglia un imprenditore specializzato in rifiuti è riuscito a scalare
l’associazione degli industriali cittadina: Antonio Caramia, tendenza
centrodestra, due figlie e proprietario dello sversatoio Italcave di
Taranto (accoglie i rifiuti industriali del siderugico Ilva, ma anche
il carbone che viene dall’Eni di Gela e i rifiuti della Campania) ne è
infatti diventato presidente. Insieme al fratello Saverio nella città
dei due Golfi è considerato uno che conta: ricchissimo, ha
diversificato lanciandosi sulle attività portuali (possiedono un
terminal per merci sfuse) e su uno stabilimento balneare, la Fata
Morgana. Negli anni ’80 i Caramia fondarono anche una tv locale, Canale
Uno, che però non ebbe fortuna.
RAS A PESCARA. In Abruzzo il padrone
del settore si chiama invece Rodolfo Di Zio, monopolista incontrastato
di Pescara e dintorni: la sua Deco, fondata nel 1989, in pratica
controlla il ciclo integrato dei rifiuti in tutta la regione,
garantendo all’azienda incassi milionari che Di Zio ha investito anche
all’estero. In particolare, in Africa: la società Ecotì s.a., che
gestisce impianti e centri di trasferimento su tutto il territorio
tunisino, è sua. Di Zio, già arrestato una volta nel 1994 per
corruzione (fu poi prosciolto), nel 2010 è stato travolto da una nuova
inchiesta giudiziaria che ha messo in luce i rapporti strettissimi tra
l’imprenditore e i politici, sia locali che nazionali: secondo i
magistrati di Pescara che lo ha prima arrestato e poi rinviato a
giudizio per corruzione, Rodolfo sarebbe stato al centro di
un’operazione criminosa per costruire un inceneritore a Teramo. Di Zio
prima avrebbe finanziato alcuni uomini di partito per ottenere
l’appalto senza partecipare a gare pubbliche, poi avrebbe brigato per
ridurre la quota obbligatoria di raccolta differenziata dal 40 al 25
per cento, in modo da avere più rifiuti da bruciare nel suo
termovalorizzatore. Secondo la procura che lo ha intercettato per mesi,
l’imprenditore «dava soldi a tutti»: pagava senatori del Pdl come Paolo
Tancredi e Fabrizio Di Stefano (di recente per loro l’accusa di
corruzione è caduta), sindaci e assessori compiacenti, mentre 94 mila
euro sembrano siano finiti in favore di candidati della lista del
governatore Gianni Chiodi. Ma il signore della monnezza pagava anche
qualche quadro del Pd. «Sono apolitico, nel senso che noi non facciamo
politica» ragionava Di Zio in un’intercettazione, «non ho rapporti
soltanto con la destra, io ce li ho anche con la sinistra». Si sa, gli
affari sono affari.
E per essere sicuro di farne di buoni, in Italia, è
meglio ungere tutti.
mhhhhhhhh la grande mangiatoia? questi ce li fanno mangiare a noi i rifiuti (per usare un termine elegante) mentre loro si foraggiano il portafogli con gli introiti in denaro che tristezza
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