Mercoledì 21 Novembre 2012 16:09
Ciò che ai più sfugge, ma che rende questo film diverso da tutti gli altri visti in precedenza, è il contesto politico, quello più ampio, all’interno del quale le trasformazioni della primavera araba giocano un ruolo da protagonista.
Se Israele oggi ha una minore libertà di manovra (comunque ancora molto ampia) e ha perso una fetta di copertura politica è perché le trasformazioni regionali degli ultimi mesi hanno modificato un complesso sistema di alleanze ed equilibri tra i paesi del Medio Oriente e non solo, a parziale vantaggio di Hamas.
L’Egitto post-Mubarack continua ad essere attraversato da spinte sociali e politiche di cambiamento e vede le piazze chiedere i palestinesi liberi dal giogo israeliano. Parallelamente, il governo ha bisogno dei finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale (e di quelli americani) per superare una situazione di crisi reale. Pertanto oggi, attraverso un delicato gioco di equilibrismi, assume una posizione più coraggiosa senza però andare in conflitto con USA e Israele.
La Turchia di Erdogan (che ha raffreddato i rapporti diplomatici con Israele a seguito dell’uccisione degli attivisti sulla Mavi Marmara diretta a Gaza nel 2010) oggi sta cercando di ritagliarsi un posto da protagonista nel quadro politico mediorientale.
La Tunisia è ancora alle prese con il post-Ben Ali e con un processo rivoluzionario non ancora concluso e denso di contraddizioni.
La Giordania, dove la primavera araba non ha cambiato radicalmente l’assetto politico, continua ad essere attraversata da manifestazioni e scontri di piazza.
Tutti paesi questi il cui posizionamento sulla scacchiera politica qualche anno fa, in concomitanza all’operazione Piombo Fuso, era stato giocato in maniera diversa.
Anche Hamas ha dato prova negli ultimi mesi di un cambio di rotta, modificando le proprie alleanze politiche e cercando di aprirsi sempre più verso l’esterno. Risultato di questa operazione è un minore investimento sull’asse siriano-iraniano e la promozione della relazione con paesi come il Qatar e l’Iraq (non ancora liberato completamente dall’occupazione americana).
Il ruolo giocato dagli Stati Uniti è, bene o male, sempre lo stesso:
Obama riconosce il diritto dello stato ebraico all’autodifesa ma, contemporaneamente, chiede di 'limitare le violenze'.
Troppo poco per tracciare una linea di discontinuità con i precedenti governi, abbastanza per dare ad Israele la copertura necessaria a portare avanti le operazioni belliche volute daifalchi del suo governo.
Pochi minuti fa l’IDF, l’esercito israeliano, ha lanciato dei volantini nel nord della Striscia annunciando un attacco via terra. Questo a poche ore dalla dichiarazione rilasciata dal presidente egiziano Morsi alla stampa internazionale, secondo la quale una tregua sarebbe oramai prossima.
Sono in molti in Israele, pur appoggiando i bombardamenti alla Striscia, a ritenere non necessario un attacco via terra. Lo stesso Netanyahu, prossimo alle elezioni, sa bene che un alto numero di morti tra i soldati israeliani giocherebbe a suo sfavore nella campagna elettorale.
A fronte di questa rapida analisi, centrale rimane la consapevolezza che nei paesi attraversati dalla primavera araba si muovono oggi delle forze reazionarie che poco si sposano con gli ideali della rivoluzione. Se è vero, infatti, che paesi come la Turchia, la Tunisia e l’Egitto stanno mostrando i muscoli per accreditarsi a referenti politici, lo è anche il fatto che a loro viene chiesto di giocare un’altra carta, quella della garanzia di un nuovo status quo verso cui tutta l’area dovrà essere traghettata.
Come sfrutteranno i Palestinesi questo nuovo spazio politico che si sta aprendo è una domanda a cui potremo rispondere solo in futuro, considerando che la loro situazione interna è tutt’altro che pacificata e priva di contraddizioni. L’auspicio è che presto un nuovo vento, come quello che generò la Primavera Araba, riprenda a soffiare in Medio Oriente, più forte che mai.
di Dana Lauriola per Uninomade
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