Venerdì 23 Novembre 2012 10:37
Sembra che i cieli di Gaza siano finalmente tornati alla
tranquillità e che le truppe israeliane schierate via terra siano state
smobilitate dopo la tregua siglata mercoledì sera al Cairo alla
presenza del ministro degli esteri Egiziano e del segretario USA
Hillary Clinton.
Ma le bombe sganciate da Israele hanno
continuato ad esplodere fino a pochi minuti prima della firma
dell’accordo e gli otto giorni dell’operazione ‘Pillar of clouds’
lasciano un bilancio di più di 160 morti e il territorio della striscia
nuovamente martoriato dai segni della guerra.
La tregua siglata al Cairo prevede il cessate il fuoco da entrambe le parti, facendo tirare un sospiro di sollievo alla popolazione di Gaza, ma la situazione resta ovviamente complessa e tutt’altro che pacificata.
Nell’accordo è infatti anche previsto un generico allentamento dei blocchi ai valichi di frontiera cui Gaza è sottoposta da anni da parte israeliana ma nelle ore seguite alla tregua è stato subito chiaro che questa ha segnato la fine delle bombe ma non porterà certo ad un mutamento radicale della condizione di assedio cui la popolazione di Gaza è costretta.
D’altronde né il premier israeliano, né l’Egitto di Morsi, né gli USA di Obama erano certo disposti (e tantomeno interessati) a negoziare un cambiamento significativo nella gestione dell’area israelo-palestinese e la striscia di Gaza che esce da una settimana di conflitto si prepara al ritorno ad una ‘normalità’ non dissimile da quella precedente l’operazione israeliana.
Il quadro politico successivo alla tregua merita però alcune osservazioni su come le due parti sono uscite dal conflitto, con risultati probabilmente diversi da quelli preventivati dal premier israeliano Nethanyau al momento del lancio dell’offensiva.
Per tutta la durata dell’operazione la resistenza palestinese ha lanciato razzi ininterrottamente, arrivando a colpire per la prima volta Tel Aviv e Gerusalemme; Hamas definisce dunque "una vittoria" l’accettazione della tregua da parte israeliana e le brigate Qassam escono indubbiamente rafforzate da questi ultimi giorni.
Meno soddisfazione per il risultato dell’operazione viene invece espresso da parte israeliana: il premier Nethanyau si è convinto a firmare solo dopo i colloqui con gli USA, costretto evidentemente a ridimensionare l’entità dell’operazione militare, mentre il malumore e l’insoddisfazione serpeggiano tra l’opposizione israeliana, convinta che la tregua sia stata un errore e che fosse necessario inasprire e prolungare l’offensiva contro la Striscia.
Una parte dell’arco politico ha chiesto le dimissioni del premier in seguito a quella che viene vissuta come una vera e propria sconfitta di Israele e non è mancato chi, come l’esponente del partito Kadima Ronit Tirosh, si è espresso esplicitamente nei termini brutali del numero di morti, dichiarando che “un più alto numero di vittime gli avrebbe garantito una maggiore porzione di seggi”.
La tregua siglata al Cairo prevede il cessate il fuoco da entrambe le parti, facendo tirare un sospiro di sollievo alla popolazione di Gaza, ma la situazione resta ovviamente complessa e tutt’altro che pacificata.
Nell’accordo è infatti anche previsto un generico allentamento dei blocchi ai valichi di frontiera cui Gaza è sottoposta da anni da parte israeliana ma nelle ore seguite alla tregua è stato subito chiaro che questa ha segnato la fine delle bombe ma non porterà certo ad un mutamento radicale della condizione di assedio cui la popolazione di Gaza è costretta.
D’altronde né il premier israeliano, né l’Egitto di Morsi, né gli USA di Obama erano certo disposti (e tantomeno interessati) a negoziare un cambiamento significativo nella gestione dell’area israelo-palestinese e la striscia di Gaza che esce da una settimana di conflitto si prepara al ritorno ad una ‘normalità’ non dissimile da quella precedente l’operazione israeliana.
Il quadro politico successivo alla tregua merita però alcune osservazioni su come le due parti sono uscite dal conflitto, con risultati probabilmente diversi da quelli preventivati dal premier israeliano Nethanyau al momento del lancio dell’offensiva.
Per tutta la durata dell’operazione la resistenza palestinese ha lanciato razzi ininterrottamente, arrivando a colpire per la prima volta Tel Aviv e Gerusalemme; Hamas definisce dunque "una vittoria" l’accettazione della tregua da parte israeliana e le brigate Qassam escono indubbiamente rafforzate da questi ultimi giorni.
Meno soddisfazione per il risultato dell’operazione viene invece espresso da parte israeliana: il premier Nethanyau si è convinto a firmare solo dopo i colloqui con gli USA, costretto evidentemente a ridimensionare l’entità dell’operazione militare, mentre il malumore e l’insoddisfazione serpeggiano tra l’opposizione israeliana, convinta che la tregua sia stata un errore e che fosse necessario inasprire e prolungare l’offensiva contro la Striscia.
Una parte dell’arco politico ha chiesto le dimissioni del premier in seguito a quella che viene vissuta come una vera e propria sconfitta di Israele e non è mancato chi, come l’esponente del partito Kadima Ronit Tirosh, si è espresso esplicitamente nei termini brutali del numero di morti, dichiarando che “un più alto numero di vittime gli avrebbe garantito una maggiore porzione di seggi”.
Ma complesso
rimane anche il quadro politico generale dell’area mediorientale: ne è
un esempio la Cisgiordania, che nei giorni dell’operazione su Gaza è
stata teatro di forti proteste e violenti scontri e dove, anche dopo la
tregua, la tensione resta alta e dove Israele continua ad effettuare
decine di arresti (gli ultimi sono avvenuti proprio questa notte) per
cercare di tenere sotto controllo la situazione.
Questo
a conferma del fatto che, se l’operazione israeliana ha giocato
esplicitamente anche in termini di pacificazione e controllo delle
istanze dei processi insorgenti della ‘primavera araba’, gli eventi di
questi giorni segnalano che tali spinte non sono esaurite.
Nessun commento:
Posta un commento