- di Andrea Giacobazzi - [fonte: Rinascita, citato da RADIO SPADA]
La
parola “Haavara” significa “trasferimento”. Nel caso specifico si
tratta del trasferimento degli ebrei e dei capitali ebraici dalla
Germania di Hitler alle colonie sioniste in Palestina: “Haavara” è il
nome con il quale si identifica l’accordo siglato nell’agosto del 1933
tra la federazione sionista tedesca, l’Anglo-Palestine Bank e il nuovo
governo nazionalsocialista, insediato da pochi mesi.
Non si trattò di una scelta improvvisa e casuale: i colloqui erano iniziati da circa tre mesi[1]. Tra l’altro, il 21 giugno 1933 i sionisti tedeschi avevano inviato un inequivocabile memorandum al “Nuovo Governo” in cui, prendendo le distanze dal processo di assimilazione ebraica, si dicevano pronti a collaborare. Nel testo si può leggere: “Sulla fondazione del nuovo Stato, che ha proclamato il principio della razza, noi vogliamo adattare la nostra comunità alla struttura complessiva in modo che anche per noi, nel settore a noi assegnato, possa realizzarsi una feconda attività per la Patria. [...]. La nostra nozione di nazionalità ebraica contempla una chiara e sincera relazione con il popolo tedesco e le sue realtà nazionali e razziali. Proprio perché non vogliamo falsificare questi fondamenti, perché anche noi, siamo contro il matrimonio misto e per il mantenimento della purezza del gruppo degli ebrei [...]”[2].
Se ebrei e tedeschi appartenevano a distinte nazionalità (o addirittura razze), l’emigrazione degli israeliti verso una loro “Patria” poteva essere desiderabile per entrambi. La stessa idea di un accordo di trasferimento non era nuova, già prima che Hitler diventasse Cancelliere, la compagnia ebraica Hanotaiah Ltd. aveva in parte gettato le basi per quello che sarebbe diventato l’accordo successivo. Nel 1932 l’obiettivo dell’Hanotaiah era quello di “piantare alberi d’agrumi in Palestina per alcuni ebrei tedeschi e di acquistare i macchinari necessari ed altri beni in Germania con fondi ebraici bloccati”[3].
Ma in cosa consisteva la nuova intesa, l’Haavara? L
Non si trattò di una scelta improvvisa e casuale: i colloqui erano iniziati da circa tre mesi[1]. Tra l’altro, il 21 giugno 1933 i sionisti tedeschi avevano inviato un inequivocabile memorandum al “Nuovo Governo” in cui, prendendo le distanze dal processo di assimilazione ebraica, si dicevano pronti a collaborare. Nel testo si può leggere: “Sulla fondazione del nuovo Stato, che ha proclamato il principio della razza, noi vogliamo adattare la nostra comunità alla struttura complessiva in modo che anche per noi, nel settore a noi assegnato, possa realizzarsi una feconda attività per la Patria. [...]. La nostra nozione di nazionalità ebraica contempla una chiara e sincera relazione con il popolo tedesco e le sue realtà nazionali e razziali. Proprio perché non vogliamo falsificare questi fondamenti, perché anche noi, siamo contro il matrimonio misto e per il mantenimento della purezza del gruppo degli ebrei [...]”[2].
Se ebrei e tedeschi appartenevano a distinte nazionalità (o addirittura razze), l’emigrazione degli israeliti verso una loro “Patria” poteva essere desiderabile per entrambi. La stessa idea di un accordo di trasferimento non era nuova, già prima che Hitler diventasse Cancelliere, la compagnia ebraica Hanotaiah Ltd. aveva in parte gettato le basi per quello che sarebbe diventato l’accordo successivo. Nel 1932 l’obiettivo dell’Hanotaiah era quello di “piantare alberi d’agrumi in Palestina per alcuni ebrei tedeschi e di acquistare i macchinari necessari ed altri beni in Germania con fondi ebraici bloccati”[3].
Ma in cosa consisteva la nuova intesa, l’Haavara? L
’ebreo tedesco che avesse voluto trasferirsi in
Palestina, avrebbe potuto farlo portando con sé una parte dei suoi
capitali depositando il denaro in un conto speciale in Germania. Questi
soldi sarebbero stati utilizzati per acquistare materiali da
costruzione, attrezzi agricoli, fertilizzanti ed altri beni di
produzione tedesca che venivano esportati in Palestina e ricollocati
attraverso questo sistema dall’Haavara Ltd. Il ricavato di queste
vendite veniva consegnato all’emigrante ebreo una volta arrivato in
Palestina in modo che potesse disporre di una certa quantità dei suoi
“assets”. Come riporta la circolare 54/1933 del Ministero delle
Finanze: “Emigrants will be paid the equivalent of their deposits by
the Palestine trust company according to the funds available from the
sale of German goods to Palestine”[4]. I beni tedeschi immessi nel
mercato palestinese erano utili per l’insediamento dei nuovi immigrati
ebrei nelle colonie sioniste e per il consolidamento e lo sviluppo del
progetto nazionale.
Mentre in tutto il mondo si avviavano campagne di contestazione e boicottaggio – per la verità inefficaci o controproducenti come tutte le campagne di questo tipo – ai danni del governo nazionalsocialista, entrava in vigore questa intesa logistico-commerciale: nel giugno 1937 la Germania divenne il primo tra i paesi esportatori in Palestina.
Mentre in tutto il mondo si avviavano campagne di contestazione e boicottaggio – per la verità inefficaci o controproducenti come tutte le campagne di questo tipo – ai danni del governo nazionalsocialista, entrava in vigore questa intesa logistico-commerciale: nel giugno 1937 la Germania divenne il primo tra i paesi esportatori in Palestina.
L’Haavara fu attiva fino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale (con una progressiva cancellazione negli ultimi anni: “The sum involved had been thirty-seven million marks in 1937; it was reduced to nineteen million in 1938 and to eight million in 1939”[5]), decine di migliaia di ebrei tedeschi in quegli anni si insediarono in Palestina.
Questo accordo rappresentò un
formidabile strumento nelle mani dei sionisti per sviluppare il loro
progetto statale in Palestina, lo storico Edwin Black sostiene che
questa intesa “determinò un’esplosione economica nella Palestina
ebraica” e rappresentò “un elemento indispensabile nella creazione
dello Stato d’Israele”[6]. Per supportare l’emigrazione prosperò in
Germania – con l’approvazione degli organi di potere – un’ampia rete di
campi di riaddestramento (Umschulungsläger) volti a promuovere le
capacità agricole e artigianali degli ebrei destinati ad abbandonare il
Reich. La separazione tra israeliti e tedeschi fu favorita con
provvedimenti volti a consolidare l’identità ebraica. Per qualche
tempo, come ricorda Herbert Strauss, “ai gruppi giovanili ed ai boy
scouts sionisti fu permesso di indossare uniformi proprie (cosa negata
ad esempio ai gruppi giovanili cattolici, nonostante il Concordato).
Alla polizia segreta e al servizio di sicurezza (SD) (incaricati di controllare le “attività nemiche” come quelle degli ebrei) fu ordinato di promuovere l’emigrazione in Palestina e di non mettere restrizioni alle organizzazioni sioniste”[7]. Lo stesso Strauss, in un altro volume memorialistico sulla sua giovinezza nella comunità ebraica tedesca, riporta:“ Doveva essere stata qualcosa di più di una semplice rissa, quando i miei compagni di classe cattolici mi parlarono degli attacchi subiti nel momento in cui la Gioventù Hitleriana, nel 1935 o nel 1936, lì aggredì durante una processione pubblica del Corpus Christi cercando di strappare loro le uniformi da boy scouts cattolici. Di converso ai boy scouts sionisti era permesso indossare, da un’ordinanza di polizia, le loro uniformi, almeno a porte chiuse”[8]. Non solo: una delle due Leggi di Norimberga, quella sulla “Protezione del Sangue e dell’Onore Tedeschi”, aveva proibito “agli ebrei di issare la bandiera con la svastica, ma nondimeno, li autorizzava a mostrare i “colori ebraici”[9].
Se per il Reich l’Haavara aveva aspetti pregevoli (uscita degli ebrei dal territorio nazionale, danno politico e di immagine alle campagne antinaziste all’estero, aumento delle esportazioni in Palestina) non mancavano però le caratteristiche negative. Più esponenti della gerarchia dello Stato – tra cui il nuovo Console a Gerusalemme Döhle – chiesero una revisione dell’Haavara partendo in particolare da tre argomentazioni:
1) uscita di merci
dalla Germania senza ingresso [corrispondente] di valute o merci
straniere;
2) questo sistema costringeva l’elemento non-ebraico in
Palestina a finanziare l’immigrazione ebraica;
3) facilitava la
creazione di uno Stato nazionale ebraico con capitale tedesco”[10].
In
particolare l’ultimo punto aveva una chiara connotazione politica, a
questo proposito non mancarono gerarchi che fecero notare come la
creazione di uno stato sionista avrebbe allargato la sfera d’influenza
dell’internazionale ebraica attraverso una nuova “base di potere”, che
per l’occasione fu paragonata “allo Stato del Vaticano per il
Cattolicesimo politico o Mosca per il Comintern”. Questo fatto avrebbe
anche irritato enormemente gli arabi. Nel dibattito circa l’opportunità
di rivedere e riformare l’Haavara intervenne lo stesso Hitler il quale
diede luogo ad uno specifico impegno nel gennaio del 1938, per
continuare l’emigrazione ebraica in Palestina.
Anche da parte sionista vi furono critiche. L ’accusa di una politica troppo accomodante verso il Reich arrivarono da diversi esponenti del movimento, in particolare nell’area anglo-americana. Oltre a queste dissociazioni, un partito che si distinse – in maniera apparentemente paradossale – nell’opposizione all’accordo fu il partito revisionista che raggruppava i cosiddetti “fascisti del sionismo”. Il loro carattere intransigente li portò a bollare l’intesa come un tradimento e una “svendita” dell’onore degli ebrei.
Tra i difensori dell’Haavara non mancarono figure centrali della futura politica israeliana, tra cui diversi primi ministri, “David Ben Gurion e Moshe Shertok (poi Sharett) si batterono a favore dell’accordo nei congressi sionisti e nel direttivo dell’Agenzia ebraica. Golda Mayerson (poi Meir) ne prese le difese a New York”[11].
Anche da parte sionista vi furono critiche. L ’accusa di una politica troppo accomodante verso il Reich arrivarono da diversi esponenti del movimento, in particolare nell’area anglo-americana. Oltre a queste dissociazioni, un partito che si distinse – in maniera apparentemente paradossale – nell’opposizione all’accordo fu il partito revisionista che raggruppava i cosiddetti “fascisti del sionismo”. Il loro carattere intransigente li portò a bollare l’intesa come un tradimento e una “svendita” dell’onore degli ebrei.
Tra i difensori dell’Haavara non mancarono figure centrali della futura politica israeliana, tra cui diversi primi ministri, “David Ben Gurion e Moshe Shertok (poi Sharett) si batterono a favore dell’accordo nei congressi sionisti e nel direttivo dell’Agenzia ebraica. Golda Mayerson (poi Meir) ne prese le difese a New York”[11].
“C’è stato un tale in Germania, un certo Hitler”, commentò un giorno con sarcasmo Ben Gurion, “è comparso Hitler e gli ebrei hanno cominciato ad arrivare”[12].
NOTE
[1]I. Gutman, Encyclopedia of the Holocaust , Vol. 1, Macmillan, 1995, pag. 639
[2]Trad. in italiano dall’inglese: L. Brenner, 51 documents: Zionist collaboration with the Nazis, Barricade Books, 2002, pagg. 42-46, cfr: “The Zionist Federation of Germany Addresses the new German State”, In Zwei Welten, Tel Aviv, 1962.
[3] Trad. in italiano dall’inglese: F. R. Nicosia, The third Reich & the Palestine question, Transaction Publishers, 2000, pag. 41.
[4] H. A. Strauss, Jewish Immigrants of the Nazi Period in the USA Vol. 4 – Jewish Emigration from Germany 1933-1942: A Documentary History, K.G. Saur, New York 1992, p. 254.
[5]W. Laqueur, A history of Zionism, Tauris Parke Paperbacks, 2003, pag. 502.
[6]E. Black, The Transfer Agreement: The Dramatic Story of the Pact Between the Third Reich and Jewish Palestine, New York, Macmillan, 1984, pagg. 373, 379, 382. Citato in M. Weber, Il sionismo e il Terzo Reich, The Journal for Historical Review, luglio-agosto 1993 – Vol. 13, n. 4, pag. 29.
[7]H. A. Strauss, Essays on the history, persecution, and emigration of German Jews, K.G. Saur, 1987, pag.203
[8]H. A. Strauss, In the Eye of the Storm: Growing Up Jewish in Germany, 1918-194 : A Memoir, Fordham Univ Press, 1999, pag. 47
[9] E. Ben Elissar , La Diplomatie du IIIe Reich et les Juifs, 1933-1939, Juillard, Paris 1969, pag. 187, in: F. YAHIA, Relazioni Pericolose, La Città del Sole, Napoli 2009, pag. 50.
[10]Trad. in italiano dall’inglese: F. R. Nicosia, The third Reich & the Palestine question, Transaction Publishers, 2000, pag. 128.
[11] T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele, Mondadori, Milano 2001, pag. 20.
[12] Ivi, pag. 32.
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