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Costa troppo.
Il Governo, ieri, ha deciso di impugnare davanti alla
Corte Costituzionale la legge con cui la Regione Campania ha istituito
il registro dei tumori.
La Campania non è una regione qualsiasi.
E’
terra di discariche, di ecoballe (per niente eco ma moltissime balle) e
di veleni; è terra di perenni roghi di monnezze che si ripercuotono
sulla salute pubblica: nei fumi degli incendi quotidiani ci sono tutte
le sostanze tossiche e cancerogene che vengono filtrate (ma mai
abbastanza) all’uscita dagli inceneritori adibiti alla spazzatura
domestica; in più c’è il lecitissimo sospetto che i rifiuti domestici
siano incendiati per mimetizzare la liquidazione illegale degli ancor
più tossici rifiuti industriali: una volta che sono in cenere, come è
possibile distinguere? I pochi dati disponibili sull’incremento dei
tumori in Campania sono allarmanti. Un registro dei tumori renderebbe
probabilmente evidente una realtà terribile, imporrebbe il risanamento
ambientale e legale. Invece no, niet, nisba: il Governo dice che è
troppo caro.
E sapete quanto costerebbe il registro? Costerebbe
1.500.000 euro all’anno, a carico della Regione Campania: secondo il
Consiglio dei Ministri (tutti i link sono in fondo) la legge regionale
che lo istituisce – la n. 19 del 10 luglio 2012 – “contiene alcune
disposizioni in contrasto con il piano di rientro dal disavanzo
sanitario”. Di qui il rinvio alla Corte Costituzionale. Non sto a
dilungarmi sul costo dei famosi cacciambombardieri o delle cosiddette
missioni di pace all’estero: il problema – è chiaro – non sono i soldi,
ma il modo in cui si decide di spenderli.
Perchè non si vogliono
spendere i soldi per il registro dei tumori in Campania, i soldi che
imporrebbero il risanamento ambientale e legale?
Cito alcuni brani de
Linkiesta, che oggi ha dedicato un dettagliatissimo articolo alla
monnezza di Napoli e dintorni Correva l’anno 1989 allorquando presso il
ristorante «La Lanterna» si tenne la cosiddetta «riunione di
Villaricca» a cui parteciparono politici, camorristi, massoni e
imprenditori (…) si decisero i destini della Campania: doveva diventare
la pattumiera dove gettare le scorie tossiche dell’intera nazione. Alla
riunione presero parte i camorristi di Pianura e dell’area flegrea,
nonché i Casalesi; l’imprenditore massone Ferdinando Cannavale legato
alla loggia Mozart di Genova e al Partito Liberale; Luca Avolio, altro
imprenditore, proprietario della discarica «Alma» ubicata in quel di
Villaricca che verrà arrestato nell’ambito dell’operazione Adelphi;
Gaetano Cerci proprietario dell’azienda «Ecologia 89» che si occupa di
trasporto e smaltimento rifiuti, ma che al contempo risulta essere
nipote di Francesco Bidognetti, braccio destro di Francesco «Sandokan»
Schiavone, il capo del clan dei Casalesi. Inoltre Cerci fungeva da
anello di congiunzione tra i Casalesi e Licio Gelli. Il capo della
loggia massonica P2 in possesso dei necessari contatti con
l’imprenditoria che conta del nord Italia. Vale a dire quei capitalisti
disposti a tutto che pur di non registrare una perdita di profitto,
preferiranno smaltire illegalmente i loro scarti industriali altamente
tossici affidandoli alla camorra (…) i clan s’impegnavano a girare ai
politici parte delle somme derivanti dal pagamento delle tangenti sui
rifiuti, in cambio delle necessarie autorizzazioni allo scarico dei
rifiuti in Campania. Anche e soprattutto i provenienti da fuori
regione.
La devastazione iniziò così. I frutti avvelenati sono ora solo
in parte noti: in luglio uno studio condotto dall’Istituto nazionale
tumori con la Fondazione Pascale di Napoli ha dimostrato che
nell’hinterland napoletano (capoluogo escluso), a Caserta e dintorni si
muore di tumore fino al 47% in più che nel resto d’Italia.
Il
quotidiano Il Manifesto ha riportato questa dichiarazione di Antonio
Marfella, oncologo e tossicologo del Pascale:
«E’ sufficiente sovrapporre alla aree a
maggiore rischio di cancro, per sversamento illegali di rifiuti
tossici, la traccia cartografica della strada provinciale a scorrimento
veloce e priva di pedaggio SS 162, cosiddetto “asse mediano”, per
comprendere un paradosso epidemiologico. Le aree più colpite dal cancro
e dalle malformazioni neonatali sono quelle con maggiore disponibilità
di zone demaniali, archeologiche, rurali e agricole»
Ovvero, in Campania si muore di cancro
dove c’è spazio per sversare illegalmente, per seppellire, per
ammassare ed incendiare cumuli in cui i rifiuti domestici possono
essere mescolati a roba ben peggiore. Chissà se, come, da chi è stato
aggiornato l’accordo del 1989 fra politici, camorra e imprenditori per
fare della Campania la pattumiera tossica d’Italia: allora, secondo la
ricostruzione de Linkiesta, il Pli era “invischiato nella vicenda sino
ai vertici nazionali”.
Sta di fatto che oggi, secondo il Governo dei
professori, costa troppo appurare quante persone, e dove, muoiono di
tumore, cioè di veleni e di rifiuti.
Costa troppo definire il quadro da
cui scaturirebbe l’imperiosa, evidente necessità di spezzare ogni
circuito illegale, di risanare e bonificare la Campania.
E in ogni caso
ai morti, va da sè, non c’è neanche bisogno di pagare la pensione.
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