Comunicato di pubblica resistenza al DDL intercettazioni

Gentile Onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, in questi giorni, in queste ore, il Parlamento della Repubblica Italiana è impegnato in una corsa contro il tempo per una più che rapida approvazione del disegno di legge firmato dall'Onorevole Ministro della Giustizia Angelino Alfano e noto come "ddl intercettazioni".

Il provvedimento rappresenta una delle più drastiche limitazioni al potere d'indagine che compete ai magistrati inquirenti del nostro paese e, al contempo, la più dura, feroce e devastante limitazione al diritto costituzionale di informazione; il diritto di farla e il diritto di riceverla.

Il progetto di legge, per mezzo dei suoi punti fondanti, impedisce il racconto giornalistico su fatti giudiziari di pubblico dominio e privi di segreto, stabilisce pene detentive e pecuniarie pesantissime verso chiunque osi divulgare verità giudiziarie, introduce nuovi obblighi di rettifica per i blog minandone la sopravvivenza, trasforma in crimine il diritto dei cittadini vittime di crimini di raccogliere prove audio e video a dimostrazione del reato e stabilisce odiose discriminazioni tra forme di giornalismo, all'interno di una drammatica limitazione del diritto ad effettuare inchieste giornalistiche.

Il diritto all'informazione nelle sue forme più elementari, il principio di legalità e la ricerca della giustizia vengono totalmente smantellati da tale provvedimento.

Pertanto questo sito internet dichiara sin da adesso che, per imprescindibili motivi etici e in ragione della difesa del diritto alla libertà di parola e di stampa, solennemente sancito dalla Costituzione italiana e dalle leggi vigenti, in caso di approvazione in via definitiva e di conversione in legge, non potrà attenersi in alcun modo alle norme che compongono il disegno di legge sulle intercettazioni.

Questo sito si dichiara altresì .. per imprescindibili motivi sia etici che politici .. deberlusconizzato .. demontizzato .. degrillizzato

martedì 5 marzo 2013

Palestina. La matita ‘pericolosa’ di Mohammad Saba'aneh


Un vignettista palestinese viene arrestato senza ragioni apparenti:  

tra accuse sconosciute e divieto di assisterlo per i suoi avvocati, per lui si profila lo stesso destino dei tanti .. prigionieri detenuti nelle carceri israeliane.  Questa volta, in solidarietà, si mobilitano le ‘matite’ che hanno disegnato le rivoluzioni arabe.

Maria Letizia Perugini - Mohammad Saba'aneh ha 32 anni.  È un vignettista palestinese, disegna per il giornale al-Hayat al-Jadida e lavora per il dipartimento di relazioni pubbliche dell’Università Araba Americana (AAU) di Jenin.

Il 16 febbraio scorso stava tornando nel suo paese dopo quattro giorni passati ad Amman per conto dell’AAU.  Il suo viaggio, però, è finito al check point del ponte di Allenby dove, fermato dalle autorità israeliane, è stato arrestato e trasferito al centro di detenzione di Jalameh (prigione di Kishon, a nord di Tel Aviv).
Da qui inizia il suo calvario.

Dopo l’arresto l’interrogatorio, senza che nessuna accusa fosse stata formalizzata nei suoi confronti.  Negato anche l’incontro con gli avvocati.

Nei giorni seguenti le notizie che arrivano sono poche e frammentarie, perchè dal 16 febbraio nessuno ha potuto incontrarlo.

Mohammad sarabbe comparso davanti a una Corte già due volte.  Il 20 febbraio il suo fermo è stato prolungato di 9 giorni e il 28 febbraio è stato confermato:  dovrà restare in carcere per ulteriori indagini.

Gli ultimi aggiornamenti arrivano dal Committee to Protect Journalists (CPJ), ma non danno molta speranza né forniscono notizie più chiare:  gli avvocati di Mohammad hanno fatto appello contro il prolungamento della detenzione e chiedono ancora di poter incontrare il proprio assistito, che intanto sarebbe stato trasferito nel carcere di Ashkelon.

Le ragioni dell’arresto restano oscure.  Ad avere infastidito le autorità israeliane, probabilmente, le sue vignette.

Profetica quella che ha scelto di intitolare 'Sognando la libertà', tra le ultime realizzate, in cui è rappresentato un ragazzo che - dietro le sbarre di una prigione e con una palla al piede - proietta l’ombra di una colomba con le ali spiegate intrecciando le mani verso un cono di luce.

Le autorità, per il momento, hanno giustificato l’arresto con la necessità di condurre indagini su presunti servizi forniti da Mohammad a “organizzazioni ostili”.  Ma non esistono accuse formali.

Un copione che si ripete.  Una nuova detenzione amministrativa, un’altra persona finita in carcere senza accuse e senza speranza di tornare presto in libertà.

Perché quando si viene arrestati dalle autorità israeliane, il più delle volte, non è dato sapere il motivo:  ‘ragioni di sicurezza’ impongono generalmente la segretezza sui capi d’accusa.

È così che i più elementari diritti umani vengono calpestati:  è successo anche ad Arafat Jaradat, arrestato per aver preso parte ad alcune manifestazioni e sottoposto ad interrogatorio da parte dei servizi segreti per una settimana nel carcere di Megiddo.
Solo che lui, in prigione, ha trovato la morte.

Sopraggiunta proprio nelle stesse ore in cui Mohammad vedeva la sua pena prolungata, in un intreccio che rende i destini dei due giovani terribilmente simili.

All’indomani del decesso di Arafat, per ragioni ancora da chiarire, la famiglia di Mohammad ha riversato tutta la sua angoscia in un comunicato rivolto alla comunità internazionale, per chiedere di non essere lasciata sola davanti al muro di gomma delle autorità israeliane.

Chiede pressioni internazionali, perché solo così può sperare di rivedere Mohammad vivo e in tempi ragionevoli.  Solo in questo modo, forse, sarà possibile evitare l’ennesima vittima di una pratica – quella della ‘detenzione amministrativa’ - che da Israele non accenna ad essere abbandonata.

Intanto, mentre si consumava il destino di Mohammad, i prigionieri palestinesi iniziavano un nuovo sciopero della fame per denunciare la morte di Jaradat:  perché non passasse inosservata, e la loro condizione di condannati senza accusa a una pena indefinita non venisse ignorata.

Lo scorso anno le proteste contro il regime di detenzione amministrativa erano state imponenti, e lo sciopero della fame avviato da alcuni prigionieri politici palestinesi aveva finito per coinvolgere oltre 2000 detenuti.

Allora la mobilitazione aveva portato ad un accordo, secondo il quale Israele avrebbe accettato di non rinnovare gli ordini di arresto preventivo a meno che l’intelligence non avesse presentato nuove prove significative.  Queste promesse, però, sono rimaste lettera morta.

Le detenzioni amministrative sono state riconfermate e continuano ad essere emesse.

Così come sono ancora in corso gli scioperi della fame: 
pochi giorni fa Human Rights Watch riportava le tragiche condizioni in cui versano Samer Issawi e Ayman Sharawna, in carcere dall’inizio del 2012 e ormai a rischio di sopravvivenza.
Le basi (il)legali della detenzione amministrativa

Il regime di detenzione amministrativa è un retaggio del mandato britannico, le cui basi giuridiche oggi sono rintracciabili in tre porzioni della legislazione israeliana, applicabili nelle diverse zone dei Territori occupati.

Per quanto riguarda la Striscia di Gaza viene applicato un provvedimento che riguarda l’arresto dei “combattenti illegittimi”, secondo il quale sono considerati tali tutti coloro “che hanno preso parte ad attività ostili contro lo Stato di Israele”.

La legge è in vigore dal 2005, data del ritiro degli insediamenti israeliani da Gaza, per colmare il ‘vuoto’ creato dal decadimento della legislazione militare valida fino a quel momento.

Per quanto riguarda il territorio israeliano viene invece applicata la “normativa di emergenza” del 1979, e in particolare il capitolo relativo agli arresti, da applicarsi solo quando viene dichiarato lo “stato di emergenza”.  Che, però, in Israele è in vigore sin dalla sua fondazione.

Ad oggi, la maggior parte delle detenzioni amministrative avviene in Cisgiordania, con l’applicazione degli articoli 284-294 dell’Ordine militare n. 1651 riguardante le disposizioni di sicurezza, parte della legislazione militare a cui sono sottoposti i Territori occupati.

Lo schema di tutti questi provvedimenti è simile: gli arresti possono essere effettuati a discrezione delle autorità se ritengono che sussistano “imperativi motivi di sicurezza”.  Tutta la procedura è fondata su “ragionevoli basi” valutate di volta in volta dal comando militare, ma tra le condizioni per l’arresto non si parla mai della necessità di produrre “prove”.

Anzi, la sezione dell’ordine che le prende in esame sottolinea solo che il giudice può decidere di derogare al sistema che ne prevede la presentazione se ritiene che questo possa giovare al procedimento.

A sua discrezione anche la decisione, laddove presenti, di renderle note all’imputato o ai suoi legali.  L’appello riguardo le decisioni del giudice, inoltre, deve essere presentato davanti a una Corte militare.

La detenzione amministrativa, sulla carta, non potrebbe eccedere i 6 mesi di durata. Ma non esistono limiti reali al rinnovo di questo periodo, che può essere esteso in modo indefinito.  Una pratica che viola la legislazione internazionale, sia in termini di diritti umani che umanitari, e da più parti denunciata.

Perché se a livello internazionale ne è prevista l’esistenza, si tratta comunque di una ‘misura eccezionale’ che dovrebbe essere applicata seguendo canoni di legalità molto stringenti.  E non è questo il caso di Israele.

Secondo l’analisi dell’organizzazione israeliana B’Tselem, infatti, l’uso che ne viene fatto è estremamente estensivo: una routine, insomma, capace di produrre centinaia di casi ogni anno.

Dovrebbe inoltre trattarsi di una pratica sussidiaria, da utilizzare in ultima istanza, e non un’alternativa più veloce e ‘pratica’ al processo penale, soprattutto nei casi in cui le prove a carico dell’imputato siano poche o inesistenti.  La loro assenza, riscontrata nella maggioranza dei casi, implica l’impossibilità per i detenuti di difendersi: non essendoci accuse pubbliche non è possibile costruire una difesa efficace.

È infine la vaghezza della formula utilizzata di “attentato alla sicurezza della nazione” a rendere estremamente ampio il campo della sua applicazione:  le manifestazioni settimanali nonviolente che si svolgono in tutti i Territori il venerdì, ad esempio, vengono fatte rientrare in questa fattispecie di reato.

La mobilitazione per Mohammad Saba'aneh: 
matite all’attacco

Le proteste e gli appelli che da mesi le associazioni internazionali per i diritti umani stanno portando avanti contro la detenzione amministrativa sono rimasti inascoltati.  Ma ad ogni nuovo arresto la mobilitazione serra le fila.

In queste settimane, a muoversi è la comunità dei fumettisti arabi.

I primi a dare notizia dell’arresto di Saba'aneh sono stati i vignettisti del blog Cartoonmovement con il quale Mohammad collabora, che stanno seguendo l’evolvere della situazione, pubblicando quotidianamente vignette che denunciano la vicenda.

Ma anche a livello internazionale l’appoggio arriva da più parti.

Da qualche giorno si è mobilitato il collettivo di disegnatori tunisini Yakayaka, che sta postando disegni dedicati alla storia di Mohammad, e che ha aderito alla campagna del Consiglio internazionale per i Diritti umani, che invita a inviare un appello direttamente alle autorità israeliane e ai responsabili delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo affinché prendano immediati provvedimenti per la liberazione del giovane.

E poi ci sono le ong che si occupano di libertà di stampa:  Reporters Sans Frontières e il CPJ stanno seguendo la vicenda fin dall’inizio, perchè il ruolo dei fumettisti come attori dell’informazione si è imposto con decisione nel corso di questi mesi.

La potenza delle immagini che realizzano e la loro ironia dissacratoria hanno raccontato e informato sui mesi caldi delle rivolte arabe.

Ed è probabilmente la forza di queste denunce ad aver portato Mohammad in carcere. 

(Tutte le vignette pubblicate sono di Mohammad Saba'aneh. 
Si ringrazia il collettivo Cartoonmovement 
per averle messe a disposizione di Osservatorio Iraq). 


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