Dopo
20 anni di lotta, di lavoro paziente e opposizione determinata, il
movimento torna in piazza per affrontare una delle sue prove più dure.
Dove non ha funzionato il silenzio, dove ha fallito la disinformazione,
pensano ora di vincerci con un po’ di galera. Ma come abbiamo detto tante volte e non ci stanchiamo di ripetere: “qui la paura non è di casa”.
Ancora
una volta scommettiamo sereni su una partecipazione numerosa e
trasversale. Da battaglia territorializzata e locale, il movimento
notav si è imposto negli ultimi anni come una delle lotte più avanzate
e durature che hanno segnato il paese nell’ultimo decennio. Un punto
di riferimento imprescindibile per quanti pensano e tendono alla
trasformazione dell'esistente, qui e altrove. Oggi ritorniamo in
piazza dalla valle e dal nazionale per riaffermare l’impossibilità di
quest’opera, l’insensatezza di uno spreco di risorse ancora non
misurabile mentre la crisi si sta mangiando tutto, per difendere le
vittorie del referendum ed i beni comuni, per la liberazione immediata
dei detenut* notav.
Una storia lunga
Sembra
ieri quando in poche centinaia organizzavamo le prime manifestazioni
nei paesi della valle, sventolando una bandiera che oggi conoscono
tutti, appesa nei balconi delle città più lontane e in ogni presidio di
lotta che si rispetti, ovunque si combatta la tentacolarità dei poteri
forti e della finanza globale. La nostra storia e ormai storia lunga
e pubblica. Come tutte le Storie degne di questo nome, è storia spessa
e profonda, racconto che si fa leggenda, slogan che diventa canzone.
Abbiamo un pantheon e date importanti da ricordare, defunti che
lasciano eredità e chiedono di essere sepolti con la bandiera,
nascituri che vengono “battezzati” al presidio. Un incredulo
giornalista della Stampa si chiedeva quest’estate come fosse possibile
che tanta gente prendesse giorni di permesso dal lavoro per partecipare
ad un presidio, una marcia, una qualunque delle nostre tante iniziative
di lotta. Misero e tapino. Sarà mai possibile comunicare qualcosa a
gente di questo tipo?
Come recita il dialetto di queste parti, la nostra “a l’è na sturia bela e a fa piasì cuntela”.
Dopo
gli esordi degli anni ‘90 col lavoro pionieristico e capillare di
informazione paese per paese, sulla scorta delle battaglie locali
contro l’autostrada (sconfitta) e contro il mega-elettrodotto
(vittoria), si faceva strada la necessità di una discesa in piazza, per
affiancare alle armi del sapere tecnico la potenza di una mobilitazione
potenzialmente di massa.
Dopo la prima manifestazione di piazza a
Bussoleno nel 2000 e a Torino nel 2001 in occasione della prima delle
innumerevoli firme di trattati tra Italia e Francia, il movimento si
recava a Genova nel luglio 2001, svezzato dalle cariche indiscriminate,
dai gas e dalle pallottole che uccisero Carlo Giuliani. Gli anni che
seguirono segnarono i primi passi di crescita e radicamento popolare
della protesta in valle. Mentre il movimento no global rifluiva nelle
sedi di social forum sempre più (istituzionalmente) politici e sempre
meno politicamente sociali, da questa piccola vallata giungeva un
messaggio di ribellione e speranza che ricordava che resistere (e
vincere) è ancora possibile. L’8 dicembre 2005 decine di migliaia di
persone erano salite da tutta Italia per riconquistare i terreni della
Libera Repubblica di Venaus. Il 3 luglio dell’estate appena trascorsa
la scena (identica e differente) si è ripetuta per rispondere allo
sgombero della Libera Repubblica della Maddalena. Le immagini di
una popolazione bombardata da centinai di gas lacrimogeni sono state
più evidenti e chiare di 1000 parole. Parallelamente alla resistenza
sul campo si giocava sul web una battaglia per la libertà
d’informazione e la cronaca in presa diretta, sganciata e più potente
del mainstream media che per raccontare l’inedito che accadeva era
obbligato o ad attendere i bollettini della Questura o parassitare i
nostri canale di contro-informazione. Come diceva un cartello alla
manifestazione torinese per gli arrestati/e, “per essere notav non
bisogna essere valsusini, basta essere onesti e informati”. La stessa
determinazione, la stessa volontà di esserci e testimoniare
un’alternativa concreta, possibile e reale, spinge i tanti qui presenti
a ripercorrere oggi queste strade già solcate centinaia di volte. Per
molti è una nuova marcia che aggiungono alla lunga lista delle
esperienze già fatte, per altri sarà la prima volta, per tutti la
consapevolezza di stare e continuare a marciare nella giusta direzione.
La
storia recente del movimento ci parla anche delle intersezioni e
risonanze che abbiamo saputo costituire con le più recenti battaglie
politiche e sociali. La scorsa primavera è stato naturale, tra una
barricata, un'assemblea e una cena in comune, incontrarsi e discutere
con gli organizzatori dei referendum per l'acqua pubblica e contro il
nucleare (in val di Susa si sono anche tentate due interruzioni di
treni trasportanti scorie nucleari radioattive). Fin dall’estate, tra
il campeggio resistente di Chiomonte e altre sedi valligiane, abbiamo
aggiornato il dibattito sullo spreco del denaro pubblico che il tav
comporterebbe, leggendolo sul livello attuale di uno scontro che si
gioca sul nodo del debito, sulla legittimità o meno di pagarlo
collettivamente. Sotto molti punti di vista il treno ad alta velocità
rappresenta oggi il concentrato materiale e simbolico della crisi che
si vuol far pagare a chi sta in basso, emblema delle differenze di
priorità che separano il buon senso delle popolazioni dalle esigenze
monetariste di presunte élites. Mentre noi diciamo che ad ogni
centimetro di tav corrisponde una borsa di studio, ad ogni metro una
scuola, ad ogni km un ospedale in meno, il ceto politico di casa nostra
ci racconta che il Tav è come i sacrifici, bisogna farli: “non ci sono
alternative”. Dietro la retorica dell’interesse generale a noi sembra
di sentire il ritornello decadente di chi non ha futuro e pensa “dopo
di noi, il diluvio”.
In questi anni in molti hanno tentato di
interpretare e descrivere il movimento notav. Qualcuno ha anche avuto
la presunzione di volercelo insegnare. I più sciocchi hanno creduto di
poterlo strumentalizzare (l’hanno pagata cara). Qualcuno ha pensato di
vederci realizzate le aspirazioni del municipalismo e la messa in
pratica delle aspirazioni di Porto Alegre. Per molti in valle, la
risposta naturale a chi pretende di fare il “padrone a casa nostra”,
per qualcun altro una nuova Resistenza, per altri ancora una prepotenza
contro dei bravi cristiani, per certuni la difesa della Costituzione,
per altri una comune rivoluzionaria .. .. Grande e generoso, il movimento
può essere quello che uno vuole vederci dentro, tutto questo e molto di
più. Per chi fa mostra di saggezza il movimento non si può definire.
Secondo
noi il movimento notav funziona perché ha saputo tenere insieme
conflitto e consenso (senza aspettare sempre “più consenso” per
rimandare
sine die il conflitto), il passato e l’avvenire, la
rabbia della lotta e la gioia della comunanza. Perché ha iniziato col
fare e non col predicare, perché è partito dal Mondo prima che dal
Verbo. Come ha detto bene Ugo Mattei la sera stessa degli arresti, in
Val di Susa si è realizzata una “sinergia particolare tra avanguardie
militanti e popolazioni locali”. E’ un giudizio che condividiamo, un
dato politico che non smette di suscitare grattacapi e rancori alla
Procura di Torino.
Politicamente maturi, dentro e fuori le mura delle carceri
Dopo
processi, gogna mediatica, intimidazioni, perquisizioni e misure
cautelari di vario grado, ci troviamo di fronte la repressione statale
in tutta la sua durezza, sorretta da un Magistratura per la quale
qualcuno è più “uguale” di altri e l'appartenenza a questo movimento di
lotta pesa come un macigno di negatività. I notav hanno infatti la
colpa di opporsi indistintamente e senza favoritismi alle consorterie
politiche tanto di Destra che di Sinistra. Ed è proprio per segnare la
propria distanza da un movimento così popolarmente connotato che il
Partito Democratico si premura ad ogni occasione di mostrarsi più
lealista del re, ripetendo in questo lo stesso errore dei loro colleghi
greci. Se ad Atene i social-democratici del Pasok espellono d'imperio
quei pochi parlamentari che hanno votato contro le misure della troika,
in Val Susa il PD chiede di non rinnovare la tessera ai militanti
locali che si schierano a fianco delle popolazioni, contro la grande
opera nefasta. Cambino le geografie ma il cielo resta lo stesso. Pensano
di bastonare il cane che affoga e non si accorgono che i cani sono
loro, tecnocrati del governo unico del capitale transnazionale.
Agli
attacchi che gli vengono mossi, con l’utilizzo sempre uguale di un
dividi et impera che inizia a perdere smalto (siamo in tempi di crisi),
il movimento notav ha risposto in maniera compatta e unitaria, senza
fronzoli o inutili distinguo. Chi cercava il mostro da sbattere in
prima pagina e sperava ancora di separare i “buoni” dai “cattivi” ha
trovato un amaro benservito. A chi ha tentato d’imporre un discorso che
non ci appartiene, il movimento ha risposto compatto e sereno che tutt*
sarebbero stati difesi perché tutti gli arrestati sono considerati
“notav”, incarcerati per aver preso parte con generosità alla lotta per
difendere la valle (e molto altro ancora, come dice la canzone: “troppo
ho da difendere”). E’ stato un gesto importante, forte, generoso; un
pronunciamento naturale, nato dalla consapevolezza di appartenere ad
una lotta di lunga durata, cementato dalla fiducia costruita in anni.
Allo stesso tempo è stata però una scelta, necessaria ma non scontata.
In quante altre parti d’Italia un movimento di lotta riesce a tenere
botta ai guaiti dei tanti cani che vogliono sbranarci (i tanti Esposito
e Numa disseminati tra burocrazie di partito e redazioni di
giornalacci)?
Quanti sanno rovesciare il segno del discorso, assumere
l’accusa che gli viene mossa contro e farne un punto d’orgoglio,
rilanciando contro l’avversario? Gli uomini e le donne che oggi ci
accompagnano in questa marcia sono qui anche per questo. E’una condotta
preziosa che ha molto da insegnare. Ci auguriamo di vederla d’ora in
avanti riprodotta anche in altri contesti. Sappiamo che non sarà facile
ma sappiamo anche che è necessaria, pena il dissolvere le lotte ogni
volta come neve al sole.
La dignità e intelligenza politica
che il movimento ha mostrato sul suo terreno pubblico è stata mantenuta
–nelle condizioni particolari dettate dal contesto – anche dai compagni
rinchiusi alle Vallette. Subito riconosciuti come soggetti degni di
rispetto, incarcerati per qualcosa che travalica la
lotta spietata
per la sopravvivenza, portatori di un discorso più generale, non si
sono adagiati sul ruolo che già gli veniva garantito. Se ne sarebbero
potuti stare comodi ad attendere di far passare la burrasca e invece si
sono calati nel contesto specifico in cui sono stati catapultati, hanno
parlato con gli altri detenuti, tentando di capire quali fossero le
mancanze e i bisogni su cui costruire un battaglia di vertenzialità
sulle condizioni interne in via di progressivo peggioramento. Hanno
fatto politica e lotta anche dentro le mura del carcere. Per questo
sono stati puniti con la dispersione e in alcuni casi con forme di
isolamento e irrigidimento delle condizione di detenzione. Anche per
questo siamo qui oggi. Per questo dobbiamo continuare a scrivergli.
Guardiamo avanti
Oggi
più che mai si fa chiara la consapevolezza che questa è una lotta di
lunga durata, cui non servono improbabili fughe in avanti né
ripiegamenti impauriti per l’incaponimento sul super-magistrato di
turno.
Il movimento vince e continua ad essere un punto di riferimento
perché ha dietro una storia e una consistenza, un radicamento e una
pluralità di soggetti che hanno imparato a rispettarsi e fidarsi
reciprocamente.
La strategia e i prossimi passi li decideremo ancora
una volta insieme, come sempre, dentro la dialettica del movimento e la
sua pragmaticità, rifuggendo le scorciatoie, evitando gli ideologismi,
stando con i piedi ben piantati per terra, il cuore saldo e gli occhi
che guardano avanti, oltre le difficoltà del momento. Sappiamo tutti
benissimo che il problema continua ad essere il cantiere
Qualcuno
credeva di cogliere il movimento notav impreparato, rassegnato alla
fattualità del non-cantiere, preso dallo sconforto, dopo tanta fatica,
per l’ostinazione con cui si mantengono aperti i rubinetti che
finanziano l’opera. E hanno pensato bene di darci il colpo finale con
questa operazione repressiva.
Ancora una volta, non hanno capito niente.
Là dove volevano dividere, hanno unito.
Volevano farci paura, abbiamo fatto festa.
Continuiamo
sereni e determinati la nostra lotta, rincuorati dalla determinazione
dei compagn* arrestati, dalle loro lettere fiere, dai numeri che anche
oggi siamo riusciti a portare in piazza.
Andiamo avanti a testa alta, facendo nostre le parole di Giorgio,
con allegria, senza timore
con coraggio, senza paura
con forza,senza panico
non faremo un passo indietro!
http://www.infoaut.org/
Il 27 giugno, quando la polizia ha attaccato la Libera Repubblica della
Maddalena, ero a Manhattan, dove abitavo da qualche tempo. Ho ascoltato
la diretta dello sgombero in streaming, in una casa di Chinatown. Pochi
giorni dopo ho preso un aereo e sono tornato in Italia, in quello che
oggi è il Kiomontistan, territorio impervio per i difensori del
neoliberismo in crisi, gli stessi che fanno i conti con Occupy Wall
Street. Passare dai grattacieli al fogliame e alle fronde mi ha fatto
davvero l’effetto di essere un soldato partito per il Vietnam, anche
perché ho condiviso con i miei compagni ogni minuto della lotta nel
nuovo scenario dell’occupazione militare: dalle ferite riportate sul
campo agli arresti, dagli assedi al non-cantiere alla caduta di Luca,
fino alla rabbia che ne è seguita. Essere No Tav è, per me, uno dei
mille modi di essere ciò che sono: ho sempre vissuto tra le persone,
nei luoghi più diversi, con il sogno di distruggere il mondo che ho
ricevuto in eredità; ed è da loro, dai miei compagni, che ho imparato
che un sogno simile, per divenire realtà, deve sapersi calare in ogni
situazione e in ogni luogo in modo nuovo, misurando il peso delle
scelte sulla bilancia dell’efficacia. La polizia, i giornalisti, i leader di
partito si interrogano su chi siamo noi, gli autonomi della Val di
Susa, con differenti livelli di stupidità. Il nostro identikit sociale
è semplice: precari, studenti-lavoratori, disoccupati ad intermittenza.
Non versiamo contributi, non abbiamo né avremo tutele. Salariati in
nero o in forma atipica nella ristorazione, nell’informatica, nella
comunicazione, nell’industria della conoscenza, ci consideriamo i
prototipi più azzeccati della nostra generazione e, al tempo stesso, i
suoi nemici mortali; non per la presunzione di voler essere meglio del
nostro tempo, ma per essere il nostro tempo
al meglio:
combattiamo, a nostro modo, la passività congenita a ogni classe
oppressa. Siamo tanti, organizzati. Tra la nebbia dei lacrimogeni
sappiamo orientarci giorno e notte, nei boschi o sulle autostrade, in
inverno o in estate, con il sole o con la pioggia. Quando l’assemblea
decide il grande corteo popolare, contribuiamo alla sua riuscita;
quando decide di arrivare alle reti, non ci spendiamo con minor
sacrificio. Imprevedibilità e flessibilità ci caratterizzano, nel
tentativo di conciliare la morale irreprensibile del rifiuto con il
pragmatismo della sua declinazione diretta. Allergici alla retorica e
ad ogni fanatismo, siamo lontani dall’individualismo ipocrita del
liberalismo quanto da quello scolastico dell’anarchismo. È l’interesse
comune, quello che si definisce in autonomia dalle istituzioni e dalle
dinamiche di sfruttamento, il cavallo di Troia che abbiamo nascosto nel
futuro.
Partito di massa e di
opinione convivono, in essenza, nella nostra forma di organizzazione
agile, figlia della critica della forma-partito come tale. Radicamento
sociale e strategia mediatica si uniscono in un abbraccio scandaloso,
nell’equilibrio millimetrico che sappiamo di dover trovare per non
cedere spazi di linguaggio e di immaginario al nostro nemico. Il tutto
con un unico, ossessivo obiettivo: valorizzare e organizzare il
conflitto sociale, aggregare nuove ragazze e nuovi ragazzi, riprodurre
ed estendere l’insubordinazione, allargare la critica. Perché? Perché
il futuro, se vuole essere diverso dal presente, deve costituirsi sul
nuovo. Senza l’autonomia sociale, politica e culturale dal potere non
si vince, dura legge della storia, spietata con chi non la impara.
Siamo militanti politici, una forma di essere umano sempre e
necessariamente in guerra, anzitutto in tempo di pace, ma non abbiamo
forze armate né piani militari; semmai, attraversiamo in modo
conflittuale una miriade di piani sociali, tra metropoli e montagna.
Incarcerati, ci mettono in isolamento; seguiti e pedinati, ci danno il
foglio di via; allergici alle carriere e alle divise, ci muoviamo come
volontari agli antipodi del volontariato.
Abbiamo
fondato il primo comitato popolare contro l’Alta Velocità dodici anni
fa e, da allora, nella corsa del movimento a diventare sempre più
grande, non ci siamo mai fermati. I governi vanno e vengono, noi siamo
sempre qui, per vincere. Qualcuno si meraviglia di come siamo visibili
e irriconoscibili a un tempo; ma è normale per chi, come noi, si
compiace di tentare la declinazione post-postmoderna del bolscevismo
più originario. Allora dicono che siamo “nascosti” dentro il movimento,
ma è l’esatto opposto: scriviamo sui siti e compariamo in televisione;
venite a trovarci nelle assemblee, nelle feste popolari, nelle
conferenze stampa. Non siamo una corrente interna, ma soggetti votati
al potenziamento dell’insieme, del tutto; l’autonomia non è una
fazione, è una necessità. Tra i fuochi delle barricate ci muoviamo
senza ideologia. Quando i Cattolici per la Valle hanno voluto costruire
una statua di Padre Pio accanto al nuovo presidio, dopo che la polizia
ha loro sottratto il pilone votivo alla Madonna, non abbiamo obiettato:
sappiamo quanto la fede può essere importante per una resistenza.
Persino quando i leghisti venivano alle assemblee, anni fa, non li
abbiamo cacciati; era chiaro fin da allora che avrebbero abbandonato in
massa il loro partito.
E se una
valligiana mi parla di energia della terra, di magia dei luoghi e dello
spirito che abita le montagne, io – scettico per indole, materialista
per vocazione – la ascolto pieno di fascino. Imparo da tutto e da
tutti, in questo scenario folle e bellissimo, dove paganesimo e
cristianesimo si incrociano con l’identità occitana e montana, mentre
ragazzi di stadio della cintura torinese incrociano i destini dei
pensionati di montagna e dei reduci della guerra, che a loro volta
ascoltano rapiti le storie delle studentesse emigrate a Torino dalla
Sicilia e dal Salento. Il potere organizza la tutela disciplinata e
astratta delle differenze, noi ne coltiviamo il potenziale reale. Le
vediamo crescere e rafforzarsi contro l’uniformazione coatta prodotta
da un potere decrepito, lo stesso che ho visto all’opera nei quartieri
di New York. Mi è costato abbandonare l’America, ma la Valle è legata
alla mia vita non meno della Grande Mela, e allora soffoco la nostalgia
della giungla d’asfalto ammirando i colori della foresta reale, la
poesia dei ciglioni dopo la nevicata, o respirando l’aria
inconfondibile di cui vivono – e dovranno continuare a vivere – i
nostri castagneti.
Pubblicato su "Alphabeta2", 6 giugno 2012