Comunicato di pubblica resistenza al DDL intercettazioni

Gentile Onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, in questi giorni, in queste ore, il Parlamento della Repubblica Italiana è impegnato in una corsa contro il tempo per una più che rapida approvazione del disegno di legge firmato dall'Onorevole Ministro della Giustizia Angelino Alfano e noto come "ddl intercettazioni".

Il provvedimento rappresenta una delle più drastiche limitazioni al potere d'indagine che compete ai magistrati inquirenti del nostro paese e, al contempo, la più dura, feroce e devastante limitazione al diritto costituzionale di informazione; il diritto di farla e il diritto di riceverla.

Il progetto di legge, per mezzo dei suoi punti fondanti, impedisce il racconto giornalistico su fatti giudiziari di pubblico dominio e privi di segreto, stabilisce pene detentive e pecuniarie pesantissime verso chiunque osi divulgare verità giudiziarie, introduce nuovi obblighi di rettifica per i blog minandone la sopravvivenza, trasforma in crimine il diritto dei cittadini vittime di crimini di raccogliere prove audio e video a dimostrazione del reato e stabilisce odiose discriminazioni tra forme di giornalismo, all'interno di una drammatica limitazione del diritto ad effettuare inchieste giornalistiche.

Il diritto all'informazione nelle sue forme più elementari, il principio di legalità e la ricerca della giustizia vengono totalmente smantellati da tale provvedimento.

Pertanto questo sito internet dichiara sin da adesso che, per imprescindibili motivi etici e in ragione della difesa del diritto alla libertà di parola e di stampa, solennemente sancito dalla Costituzione italiana e dalle leggi vigenti, in caso di approvazione in via definitiva e di conversione in legge, non potrà attenersi in alcun modo alle norme che compongono il disegno di legge sulle intercettazioni.

Questo sito si dichiara altresì .. per imprescindibili motivi sia etici che politici .. deberlusconizzato .. demontizzato .. degrillizzato

mercoledì 20 giugno 2012

"Siamo ancora qua .. la Valle e il nostro Tempo .. Autonomia in Val Susa"



Dopo 20 anni di lotta, di lavoro paziente e opposizione determinata, il movimento torna in piazza per affrontare una delle sue prove più dure.
Dove non ha funzionato il silenzio, dove ha fallito la disinformazione, pensano ora di vincerci con un po’ di galera.  Ma come abbiamo detto tante volte e non ci stanchiamo di ripetere:  “qui la paura non è di casa”.
Ancora una volta scommettiamo sereni su una partecipazione numerosa e trasversale.  Da battaglia territorializzata e locale, il movimento notav si è imposto negli ultimi anni come una delle lotte più avanzate e durature che hanno segnato il  paese nell’ultimo decennio.  Un punto di riferimento imprescindibile per quanti pensano e tendono alla trasformazione dell'esistente, qui e altrove.  Oggi ritorniamo in piazza dalla valle e dal nazionale per riaffermare l’impossibilità di quest’opera, l’insensatezza di uno spreco di risorse ancora non misurabile mentre la crisi si sta mangiando tutto, per difendere le vittorie del referendum ed i beni comuni, per la liberazione immediata dei detenut* notav.
 
Una storia lunga
Sembra ieri quando in poche centinaia organizzavamo le prime manifestazioni nei paesi della valle, sventolando una bandiera che oggi conoscono tutti, appesa nei balconi delle città più lontane e in ogni presidio di lotta che si rispetti, ovunque si combatta  la tentacolarità dei poteri forti e della finanza globale.  La nostra storia e ormai storia lunga e pubblica.  Come tutte le Storie degne di questo nome, è storia spessa e profonda, racconto che si fa leggenda, slogan che diventa canzone. 
Abbiamo un pantheon e date importanti da ricordare, defunti che lasciano eredità e chiedono di essere sepolti con la bandiera, nascituri che vengono “battezzati” al presidio.  Un incredulo giornalista della Stampa si chiedeva quest’estate come fosse possibile che tanta gente prendesse giorni di permesso dal lavoro per partecipare ad un presidio, una marcia, una qualunque delle nostre tante iniziative di lotta.  Misero e tapino.  Sarà mai possibile comunicare qualcosa a gente di questo tipo?

Come recita il dialetto di queste parti, la nostra “a l’è na sturia bela e a fa piasì cuntela”.

Dopo gli esordi degli anni ‘90 col lavoro pionieristico e capillare di informazione paese per paese, sulla scorta delle battaglie locali contro l’autostrada (sconfitta) e contro il mega-elettrodotto (vittoria), si faceva strada la necessità di una discesa in piazza, per affiancare alle armi del sapere tecnico la potenza di una mobilitazione potenzialmente di massa.
Dopo la prima manifestazione di piazza a Bussoleno nel 2000 e a Torino nel 2001 in occasione della prima delle innumerevoli firme di trattati tra Italia e Francia, il movimento si recava a Genova nel luglio 2001, svezzato dalle cariche indiscriminate, dai gas e dalle pallottole che uccisero Carlo Giuliani.  Gli anni che seguirono segnarono i primi passi di crescita e radicamento popolare della protesta in valle.  Mentre il movimento no global rifluiva nelle sedi di social forum sempre più (istituzionalmente) politici e sempre meno politicamente sociali, da questa piccola vallata giungeva un messaggio di ribellione e speranza che ricordava che resistere (e vincere) è ancora possibile.  L’8 dicembre 2005 decine di migliaia di persone erano salite da tutta Italia per riconquistare i terreni della Libera Repubblica di Venaus.  Il 3 luglio dell’estate appena trascorsa  la scena (identica e differente) si è ripetuta per  rispondere allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena.  Le immagini di una popolazione bombardata da centinai di gas lacrimogeni sono state più evidenti e chiare di 1000 parole.  Parallelamente alla resistenza sul campo si giocava sul web una battaglia per la libertà d’informazione e la cronaca in presa diretta, sganciata e più potente del mainstream media che per raccontare l’inedito che accadeva era obbligato o ad attendere  i bollettini della Questura o parassitare i nostri canale di contro-informazione.  Come diceva un cartello alla manifestazione torinese per gli arrestati/e, “per essere notav non bisogna essere valsusini, basta essere onesti e informati”.  La stessa determinazione, la stessa volontà di esserci e testimoniare  un’alternativa concreta, possibile e reale, spinge i tanti qui presenti a ripercorrere oggi queste strade già solcate centinaia di volte.  Per molti è una nuova marcia che aggiungono alla lunga lista delle esperienze già fatte, per altri sarà la prima volta, per tutti la consapevolezza di stare e continuare a marciare nella giusta direzione.

La storia recente del movimento ci parla anche delle intersezioni e risonanze che abbiamo saputo costituire con le più recenti battaglie politiche e sociali.  La scorsa primavera è stato naturale, tra una barricata, un'assemblea e una cena in comune, incontrarsi e discutere con gli organizzatori dei referendum per l'acqua pubblica e contro il nucleare (in val di Susa si sono anche tentate due interruzioni di treni trasportanti scorie nucleari radioattive).  Fin dall’estate, tra il campeggio resistente di Chiomonte e altre sedi valligiane, abbiamo aggiornato il dibattito sullo spreco del denaro pubblico che il tav comporterebbe, leggendolo sul livello attuale di uno scontro che si gioca sul nodo del debito, sulla legittimità o meno di pagarlo collettivamente.  Sotto molti punti di vista il treno ad alta velocità rappresenta oggi il concentrato materiale e simbolico della crisi che si vuol far pagare a chi sta in basso, emblema delle differenze di priorità che separano il buon senso delle popolazioni dalle esigenze monetariste di presunte élites.  Mentre noi diciamo che ad ogni centimetro di tav corrisponde una borsa di studio, ad  ogni metro una scuola, ad ogni km un ospedale in meno, il ceto politico di casa nostra ci racconta che il Tav è come i sacrifici, bisogna farli: “non ci sono alternative”.  Dietro la retorica dell’interesse generale a noi sembra di sentire il ritornello decadente di chi non ha futuro e pensa “dopo di noi, il diluvio”.

In questi anni in molti hanno tentato di interpretare e descrivere il movimento notav.  Qualcuno ha anche avuto la presunzione di volercelo insegnare.  I più sciocchi hanno creduto di poterlo strumentalizzare (l’hanno pagata cara).  Qualcuno ha pensato di vederci realizzate le aspirazioni del municipalismo e la messa in pratica delle aspirazioni di Porto Alegre.  Per molti in valle, la risposta naturale a chi pretende di fare il “padrone a casa nostra”, per qualcun altro una nuova Resistenza, per altri ancora una prepotenza contro dei bravi cristiani, per certuni la difesa della Costituzione, per altri una comune rivoluzionaria .. ..  Grande e generoso, il movimento può essere quello che uno vuole vederci dentro, tutto questo e molto di più.  Per chi fa mostra di saggezza il movimento non si può definire.
Secondo noi il movimento notav funziona perché ha saputo tenere insieme conflitto e consenso (senza aspettare sempre “più consenso” per rimandare sine die il conflitto), il passato e l’avvenire, la rabbia della lotta e la gioia della comunanza.  Perché ha iniziato col fare e non col predicare, perché è partito dal Mondo prima che dal Verbo.  Come ha detto bene Ugo Mattei la sera stessa degli arresti, in Val di Susa si è realizzata una “sinergia particolare tra avanguardie militanti e popolazioni locali”.  E’ un giudizio che condividiamo, un dato politico che non smette di suscitare grattacapi e rancori alla Procura di Torino.
 
Politicamente maturi, dentro e fuori le mura delle carceri
Dopo processi, gogna mediatica, intimidazioni, perquisizioni e misure cautelari di vario grado, ci troviamo di fronte la repressione statale in tutta la sua durezza, sorretta da un Magistratura per la quale qualcuno è più “uguale” di altri e l'appartenenza a questo movimento di lotta pesa come un macigno di negatività.  I notav hanno infatti la colpa di opporsi indistintamente e senza favoritismi alle consorterie politiche tanto di Destra che di Sinistra.  Ed è proprio per segnare la propria distanza da un movimento così popolarmente connotato che il Partito Democratico si premura ad ogni occasione di mostrarsi più lealista del re, ripetendo in questo lo stesso errore dei loro colleghi greci.  Se ad Atene  i social-democratici del Pasok  espellono d'imperio quei pochi parlamentari che hanno votato contro le misure della troika, in Val Susa il PD chiede di non rinnovare la tessera ai  militanti locali che si schierano a fianco delle popolazioni, contro la grande opera nefasta.  Cambino le geografie ma il cielo resta lo stesso.  Pensano di bastonare il cane che affoga e non si accorgono che i cani sono loro, tecnocrati del governo unico del capitale transnazionale.

Agli attacchi che gli vengono mossi, con l’utilizzo sempre uguale di un dividi et impera che inizia a perdere smalto (siamo in tempi di crisi), il movimento notav ha risposto in maniera compatta e unitaria, senza fronzoli o inutili distinguo.  Chi cercava il mostro da sbattere in prima pagina e sperava ancora di separare i “buoni” dai “cattivi” ha trovato un amaro benservito.  A chi ha tentato d’imporre un discorso che non ci appartiene, il movimento ha risposto compatto e sereno che tutt* sarebbero stati difesi perché tutti gli arrestati sono considerati “notav”, incarcerati per aver preso parte con generosità alla lotta per difendere la valle (e molto altro ancora, come dice la canzone: “troppo ho da difendere”).  E’ stato un gesto importante, forte, generoso; un pronunciamento naturale, nato dalla consapevolezza di appartenere ad una lotta di lunga durata, cementato dalla fiducia costruita in anni.  Allo stesso tempo è stata però una scelta, necessaria ma non scontata.  In quante altre parti d’Italia un movimento di lotta riesce a tenere botta ai guaiti dei tanti cani che vogliono sbranarci (i tanti Esposito e Numa disseminati tra burocrazie di partito e redazioni di giornalacci)? 

Quanti sanno rovesciare il segno del discorso, assumere l’accusa che gli viene mossa contro e farne un punto d’orgoglio, rilanciando contro l’avversario?  Gli uomini e le donne che oggi ci accompagnano in questa marcia sono qui anche per questo.  E’una condotta preziosa che ha molto da insegnare.  Ci auguriamo di vederla d’ora in avanti riprodotta anche in altri contesti.  Sappiamo che non sarà facile ma sappiamo anche che è necessaria, pena il dissolvere le lotte ogni volta come neve al sole.

La dignità e intelligenza politica che il movimento ha mostrato sul suo terreno pubblico è stata mantenuta –nelle condizioni particolari dettate dal contesto – anche dai compagni rinchiusi alle Vallette.  Subito riconosciuti come soggetti degni di rispetto, incarcerati per qualcosa che travalica la
lotta spietata per la sopravvivenza, portatori di un discorso più generale, non si sono adagiati sul ruolo che già gli veniva garantito.  Se ne sarebbero potuti stare comodi ad attendere di far passare la burrasca e invece si sono calati nel contesto specifico in cui sono stati catapultati, hanno parlato con gli altri detenuti, tentando di capire quali fossero le mancanze e i bisogni su cui costruire un battaglia di vertenzialità sulle condizioni interne in via di progressivo peggioramento.  Hanno fatto politica e lotta anche dentro le mura del carcere.  Per questo sono stati puniti con la dispersione e in alcuni casi con forme di isolamento e irrigidimento delle condizione di detenzione. Anche per questo siamo qui oggi.  Per questo dobbiamo continuare a scrivergli.

Guardiamo avanti
Oggi più che mai si fa chiara la consapevolezza che questa è una lotta di lunga durata, cui non servono improbabili fughe in avanti né ripiegamenti impauriti per l’incaponimento sul super-magistrato di turno.
Il movimento vince e continua ad essere un punto di riferimento perché ha dietro una storia e una consistenza, un radicamento e una pluralità di soggetti che hanno imparato a rispettarsi e fidarsi reciprocamente.
La strategia e i prossimi passi li decideremo ancora una volta insieme, come sempre, dentro la dialettica del movimento e la sua pragmaticità, rifuggendo le scorciatoie, evitando gli ideologismi, stando con i piedi ben piantati per terra, il cuore saldo e gli occhi che guardano avanti, oltre le difficoltà del momento.  Sappiamo tutti benissimo che il problema continua ad essere il cantiere

Qualcuno credeva di cogliere il movimento notav impreparato, rassegnato alla fattualità del non-cantiere, preso dallo sconforto, dopo tanta fatica, per l’ostinazione con cui si mantengono aperti i rubinetti che finanziano l’opera.  E hanno pensato bene di darci il colpo finale con questa operazione repressiva. 

Ancora una volta, non hanno capito niente.
Là dove volevano dividere, hanno unito.
Volevano farci paura, abbiamo fatto festa.
Continuiamo sereni e determinati la nostra lotta, rincuorati dalla determinazione dei compagn* arrestati, dalle loro lettere fiere, dai numeri che anche oggi siamo riusciti a portare in piazza.

Andiamo avanti a testa alta, facendo nostre le parole di Giorgio,

con allegria, senza timore
con coraggio, senza paura
con forza,senza panico
non faremo un passo indietro!



http://www.infoaut.org/


Il 27 giugno, quando la polizia ha attaccato la Libera Repubblica della Maddalena, ero a Manhattan, dove abitavo da qualche tempo.  Ho ascoltato la diretta dello sgombero in streaming, in una casa di Chinatown.  Pochi giorni dopo ho preso un aereo e sono tornato in Italia, in quello che oggi è il Kiomontistan, territorio impervio per i difensori del neoliberismo in crisi, gli stessi che fanno i conti con Occupy Wall Street.  Passare dai grattacieli al fogliame e alle fronde mi ha fatto davvero l’effetto di essere un soldato partito per il Vietnam, anche perché ho condiviso con i miei compagni ogni minuto della lotta nel nuovo scenario dell’occupazione militare: dalle ferite riportate sul campo agli arresti, dagli assedi al non-cantiere alla caduta di Luca, fino alla rabbia che ne è seguita.  Essere No Tav è, per me, uno dei mille modi di essere ciò che sono: ho sempre vissuto tra le persone, nei luoghi più diversi, con il sogno di distruggere il mondo che ho ricevuto in eredità; ed è da loro, dai miei compagni, che ho imparato che un sogno simile, per divenire realtà, deve sapersi calare in ogni situazione e in ogni luogo in modo nuovo, misurando il peso delle scelte sulla bilancia dell’efficacia.  La polizia, i giornalisti, i leader di partito si interrogano su chi siamo noi, gli autonomi della Val di Susa, con differenti livelli di stupidità. Il nostro identikit sociale è semplice: precari, studenti-lavoratori, disoccupati ad intermittenza.  Non versiamo contributi, non abbiamo né avremo tutele.  Salariati in nero o in forma atipica nella ristorazione, nell’informatica, nella comunicazione, nell’industria della conoscenza, ci consideriamo i prototipi più azzeccati della nostra generazione e, al tempo stesso, i suoi nemici mortali; non per la presunzione di voler essere meglio del nostro tempo, ma per essere il nostro tempo al meglio: combattiamo, a nostro modo, la passività congenita a ogni classe oppressa.   Siamo tanti, organizzati.  Tra la nebbia dei lacrimogeni sappiamo orientarci giorno e notte, nei boschi o sulle autostrade, in inverno o in estate, con il sole o con la pioggia.  Quando l’assemblea decide il grande corteo popolare, contribuiamo alla sua riuscita; quando decide di arrivare alle reti, non ci spendiamo con minor sacrificio.  Imprevedibilità e flessibilità ci caratterizzano, nel tentativo di conciliare la morale irreprensibile del rifiuto con il pragmatismo della sua declinazione diretta.  Allergici alla retorica e ad ogni fanatismo, siamo lontani dall’individualismo ipocrita del liberalismo quanto da quello scolastico dell’anarchismo.  È l’interesse comune, quello che si definisce in autonomia dalle istituzioni e dalle dinamiche di sfruttamento, il cavallo di Troia che abbiamo nascosto nel futuro.

Partito di massa e di opinione convivono, in essenza, nella nostra forma di organizzazione agile, figlia della critica della forma-partito come tale. Radicamento sociale e strategia mediatica si uniscono in un abbraccio scandaloso, nell’equilibrio millimetrico che sappiamo di dover trovare per non cedere spazi di linguaggio e di immaginario al nostro nemico.  Il tutto con un unico, ossessivo obiettivo: valorizzare e organizzare il conflitto sociale, aggregare nuove ragazze e nuovi ragazzi, riprodurre ed estendere l’insubordinazione, allargare la critica.  Perché?  Perché il futuro, se vuole essere diverso dal presente, deve costituirsi sul nuovo.  Senza l’autonomia sociale, politica e culturale dal potere non si vince, dura legge della storia, spietata con chi non la impara.  Siamo militanti politici, una forma di essere umano sempre e necessariamente in guerra, anzitutto in tempo di pace, ma non abbiamo forze armate né piani militari; semmai, attraversiamo in modo conflittuale una miriade di piani sociali, tra metropoli e montagna. Incarcerati, ci mettono in isolamento; seguiti e pedinati, ci danno il foglio di via; allergici alle carriere e alle divise, ci muoviamo come volontari agli antipodi del volontariato.

Abbiamo fondato il primo comitato popolare contro l’Alta Velocità dodici anni fa e, da allora, nella corsa del movimento a diventare sempre più grande, non ci siamo mai fermati.  I governi vanno e vengono, noi siamo sempre qui, per vincere.  Qualcuno si meraviglia di come siamo visibili e irriconoscibili a un tempo; ma è normale per chi, come noi, si compiace di tentare la declinazione post-postmoderna del bolscevismo più originario. Allora dicono che siamo “nascosti” dentro il movimento, ma è l’esatto opposto: scriviamo sui siti e compariamo in televisione; venite a trovarci nelle assemblee, nelle feste popolari, nelle conferenze stampa.  Non siamo una corrente interna, ma soggetti votati al potenziamento dell’insieme, del tutto; l’autonomia non è una fazione, è una necessità.  Tra i fuochi delle barricate ci muoviamo senza ideologia.  Quando i Cattolici per la Valle hanno voluto costruire una statua di Padre Pio accanto al nuovo presidio, dopo che la polizia ha loro sottratto il pilone votivo alla Madonna, non abbiamo obiettato: sappiamo quanto la fede può essere importante per una resistenza.  Persino quando i leghisti venivano alle assemblee, anni fa, non li abbiamo cacciati; era chiaro fin da allora che avrebbero abbandonato in massa il loro partito.

E se una valligiana mi parla di energia della terra, di magia dei luoghi e dello spirito che abita le montagne, io – scettico per indole, materialista per vocazione – la ascolto pieno di fascino.  Imparo da tutto e da tutti, in questo scenario folle e bellissimo, dove paganesimo e cristianesimo si incrociano con l’identità occitana e montana, mentre ragazzi di stadio della cintura torinese incrociano i destini dei pensionati di montagna e dei reduci della guerra, che a loro volta ascoltano rapiti le storie delle studentesse emigrate a Torino dalla Sicilia e dal Salento.  Il potere organizza la tutela disciplinata e astratta delle differenze, noi ne coltiviamo il potenziale reale. Le vediamo crescere e rafforzarsi contro l’uniformazione coatta prodotta da un potere decrepito, lo stesso che ho visto all’opera nei quartieri di New York.  Mi è costato abbandonare l’America, ma la Valle è legata alla mia vita non meno della Grande Mela, e allora soffoco la nostalgia della giungla d’asfalto ammirando i colori della foresta reale, la poesia dei ciglioni dopo la nevicata, o respirando l’aria inconfondibile di cui vivono – e dovranno continuare a vivere – i nostri castagneti.

Pubblicato su "Alphabeta2", 6 giugno 2012

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