discariche, inceneritori e falde acquifere:
rifiuti e altri attacchi alle risorse idriche del Lazio ..
dell'Italia e del mondo anche ..
L’intervista che qui vi proponiamo, ci è stata ispirata dalle cronache di Roma e provincia, segnate dalla continua ricerca di località in cui collocare discariche. Tra le motivazioni addotte per respingere quella che è una forma di aggressione al territorio – oltre che una modalità arretrata di gestione del ciclo dei rifiuti – vi è spesso la vicinanza delle previste discariche a falde acquifere. Un argomento assai fondato, come si evince dal discorso sviluppato dal nostro interlocutore, Francesco Aucone,
geologo e militante della Federazione dei Comunisti Anarchici .. il quale, confrontandosi con domande dal carattere volutamente generale, ha impresso alle sue risposte un respiro saggistico.
1)
Roma è un'area metropolitana gigantesca, per giunta storicamente
segnata da una crescita disordinata. Ciò porta inevitabilmente con sé
dei problemi per le risorse naturali. In termini generali, questo
sviluppo convulso, quanto incide e quali danni produce sulle risorse
idriche del territorio?
Il problema dell’impatto di una metropoli come Roma rispetto alle
risorse idriche del territorio va affrontato a partire da due aspetti
distinti, che però sono allo stesso tempo legati tra loro: il bilancio
quantitativo delle risorse e la pressione ecologica esercitata dalla
grande concentrazione umana sulle risorse stesse.
Secondo i dati dell’ATO2 (Ambito Territoriale Ottimale del Lazio
centrale) di qualche anno fa, Roma consuma mediamente circa 330 milioni
di metri cubi l’anno (compresi però anche i Comuni di Ciampino,
Fiumicino e lo Stato Vaticano) a cui andrebbero aggiunti i circa 180
milioni circa di metri cubi di acqua che si perdono in quel colabrodo
che è la rete distributiva cittadina.
Di questi circa il 70% viene consumato nelle abitazioni private,
il 6% nell’industria e nel commercio ed il 24% per altri usi quali:
fontane e fontanelle, impianti sportivi e ricreativi, comunità
religiose, caserme, innaffiamenti ecc.
L’acqua consumata a Roma, l’unica capitale mondiale ad essere
rifornita da sole acque di sorgente, arriva da altri territori, anche
se tutti appartenenti al bacino del Fiume Tevere. Infatti sono 5 gli
acquedotti che portano l’acqua potabile a Roma. I principali sono il
Peschiera e il Capore (che poi confluiscono in un unico condotto),
provenienti dal bacino del Fiume Velino e del Farfa, e l’acquedotto
Marcio, proveniente dall’alta valle del Fiume Aniene. Poi vi sono
l’Appio Alessandrino ed il Nuovo Vergine, che provengono da più vicino
e sono più piccoli.
Tutta quest’acqua che arriva a Roma attraverso gli acquedotti è
superiore al fabbisogno, e quindi ai consumi, della città. Infatti il
totale captato è di circa 550 milioni di metri cubi l’anno contro i 330
consumati, anche se la consistente quota che viene persa nella rete
distributiva, non mette del tutto al riparo da eventuali profonde crisi
idriche. Crisi che non sono da escludere in futuro, viste le avvisaglie
del cambiamento climatico che da circa 30 anni, ormai, sta interessando
in diversa misura i paesi circummediterranei, tra cui l’Italia, con un
calo altalenante ma progressivo delle precipitazioni e conseguentemente
dell’alimentazione dei sistemi idrogeologici da cui Roma, e non solo,
si approvvigiona.
Dal punto di vista dell’impatto del sistema di gestione delle
risorse idriche sul territorio, l’acqua in entrata nel sistema
cittadino viene poi direttamente o indirettamente immessa nel sistema
idrologico e idrogeologico del territorio romano, a parte quella che se
ne va per evapotraspirazione
(1).
Viene immessa direttamente nel sistema idrogeologico attraverso le
perdite della rete distributrice (che, come abbiamo visto,
rappresentano più del 30% del totale captato) subendo solo piccole
trasformazioni, legate all’apporto di sostanze lisciviate dai terreni
di riporto all’interno dei quali si trovano le tubazioni.
Viene immessa indirettamente, prevalentemente nella rete
idrologica superficiale, dopo aver subito profonde trasformazioni
chimiche e fisiche nell’uso domestico e industriale e dopo aver subito
i processi di depurazione previsti dalla legge. Questo teoricamente,
poiché non è solo la rete distributiva idrica ad essere un colabrodo,
ma anche la rete fognaria, per cui una buona parte dei reflui
cittadini, sia di tipo domestico che industriale, non riescono a
raggiungere i depuratori e vanno ad alimentare le falde del sottosuolo
cittadino con tutto il loro carico di tensioattivi, ammoniaca, nitrati,
fosfati, cloruri, grassi, batteri fecali, metalli pesanti, idrocarburi,
ecc, oltre a provocare quell’erosione sotterranea che spesso è la prima
causa di fenomeni come il cedimento di fondazioni, l’apertura di
voragini, gli abbassamenti del suolo, ecc. Senza considerare gli
sversamenti illegali sul suolo o nella rete idrografica di reflui non
depurati da parte delle attività industriali. Di questi non si conosce
l’entità ma è un fatto che le falde del sottosuolo romano risultano
profondamente inquinate.
Ritornando alla domanda iniziale si può dire che Roma dal punto di
vista dell’approvvigionamento idrico è messa in una posizione ideale,
circondata da massicci calcarei che ospitano immense falde acquifere,
sfruttate dalla città fin dalla sua nascita, con un sistema efficiente,
dal punto di vista ingegneristico, di acquedotti. Ma si può anche dire
che questa ricchezza naturale è messa a dura prova dalle modalità
tecnico-amministrative di gestione delle risorse idriche, con una rete
distributiva che disperde più del 30% delle stesse.
Le dispersioni della rete fognaria inoltre, unite agli sversamenti
illegali, e all’inquinamento generalizzato dell’ecosistema cittadino,
hanno compromesso profondamente le falde del sottosuolo romano. Falde
che, specialmente nei quadranti est e sud-est della città, hanno delle
dimensioni importanti, contenute in spesse coltri vulcaniche e che
potrebbero rappresentare delle risorse importanti. Fino ad ora però
nessun gestore, né statale né ta capitale misto o privato, ha mai
considerato in maniera seria queste problematiche.
2) Potresti spiegarci, per sommi capi, la normativa che
protegge le risorse idriche in generale e le falde acquifere in
particolare?
La prima legge a protezione dell’acqua dall’inquinamento
è del Luglio 1934, col R.D. n.1265, nel quale era previsto l’obbligo di
depurazione dei liquami fognari prima dell’immissione nei corsi
d’acqua.
Mentre per il primo piano di gestione degli acquedotti bisogna aspettare il 1963, con la Legge n. 129 del 4 Febbraio.
Fino ad allora la gestione e la protezione delle risorse idriche
era appannaggio dello Stato; è nel 1972 che si attua il decentramento
della gestione delle risorse idriche nei suoi vari aspetti
infrastrutturali, di protezione ambientale e di gestione. Tutto ciò
passa alle regioni con il D.P.R. n. 8 del 15 Gennaio 1972.
Da questo punto in avanti ogni Regione comincia a formulare una
propria legislazione, orientata specialmente a stabilire i limiti di
accettabilità dei vari tipi di acque, mentre la legislazione statale
continua a fornire specialmente delle linee guida; come la Legge n. 183
del 18 Maggio 1989 che stabilisce Norme per il riassetto organizzativo
e funzionale della difesa del suolo, in cui sono comprese linee guida
non solo per la razionalizzazione della gestione della risorsa idrica,
ma anche per la difesa del territorio dal dissesto idrogeologico. È con
questa legge che nascono le “Autorità di bacino”, enti misti tra
ministeri ed enti locali predisposti alla gestione integrata dell’acqua
all’interno dei bacini idrografici italiani,
il cui strumento operativo
è costituito dai “Piani di bacino”.
Anche la cosiddetta “Legge Galli”, o Legge n. 36 del 5 Gennaio
1994,
è importante in quanto contiene alcuni principi generali sulla
tutela e sull’uso delle risorse idriche, e stabilisce che tutte le
acque, superficiali e sotterranee, anche se non estratte dal
sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da utilizzare
secondo criteri di solidarietà;
tale legge stabilisce inoltre che l’uso
dell’acqua per consumo umano è prioritario rispetto agli altri usi.
Tuttavia la Legge Galli non è tutta rose e fiori, anzi, introduce
delle regole che aprono la strada alla mercificazione dell’acqua da
parte del Capitale privato. Infatti una prima sostanziale innovazione
introdotta dalla legge Galli è rappresentata dalla separazione tra
titolarità e gestione del servizio idrico; si pone fine, in questo
modo, alla coincidenza tra i "titolari" ed i "gestori" del servizio
prevista fino ad allora dal sistema italiano, introducendo formalmente
una differenza tra proprietà della risorsa e gestione della risorsa che
nei fatti porterà, attraverso l’acquisizione dei poteri che conferisce
la gestione privata, ad una sostanziale svendita di una risorsa
collettiva al capitale privato, ed alla sua collocazione sul mercato
capitalistico.
Un’ulteriore spinta verso la mercificazione della risorsa idrica
operata dalla legge Galli è rappresentata dall’introduzione della nuova
disciplina tariffaria, che, ispirandosi al principio della copertura
dei costi, introduce l’obbligo di remunerazione del capitale investito,
con tutte le conseguenze a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni
di gestione privata delle risorse idriche, fatta di aumenti
esponenziali delle bollette e di moltiplicazione dei disservizi.
Non dimentichiamoci, però, che una parte delle risorse idriche è
già privatizzata da decenni ed è rappresentata da tutte quelle falde
contenenti acque minerali che molte multinazionali sfruttano con lauti
guadagni a fronte di due spiccioli di concessione pagati alle Regioni.
Le leggi di cui abbiamo parlato sopra sono orientate specialmente
alla razionalizzazione della gestione della risorsa, mentre per quanto
riguarda la tutela delle acque dall’inquinamento dobbiamo fare, sul
piano temporale, un passo indietro con la “Legge Merli” (Legge n. 319
del 10 Maggio 1976), che stabilisce i limiti di accettabilità delle
acque reflue nei corpi idrici naturali e che ha come oggetto: la
disciplina degli scarichi, la formulazione di criteri generali per
l'utilizzazione e lo scarico delle acque, l'organizzazione dei pubblici
servizi di acquedotto, fognature e depurazione, la redazione di un
piano generale di risanamento delle acque ed infine il rilevamento
sistematico delle caratteristiche qualitative e quantitative dei corpi
idrici.
I principi base della Legge Merli continuano nel D.L.vo 11 maggio
1999, n.152, che tra l’altro stabilisce i tempi di adeguamento delle
situazioni a forte rischio inquinamento (come scarichi di reflui nel
suolo di interi agglomerati urbani) alle direttive della Comunità
Europea. Con questa legge nessuno più potrà scaricare i reflui
direttamente nel suolo, tranne le abitazioni isolate che potranno
continuare a farlo impiegando pero forme di trattamento come le
“fosse
Imhoff”
(2) o la fitodepurazione.
Caso strano, sono esentate da questi obblighi le imprese che
estraggono l’energia geotermica, quelle che gestiscono l’estrazione
mineraria e quelle che estraggono petrolio, che potranno continuare a
immettere l’acqua, legata ad alcune loro fasi lavorative, direttamente
in falda, con gli immaginabili rischi d’inquinamento.
Per concludere il nostro excursus sul quadro normativo in tema di
gestione delle risorse idriche è di fondamentale importanza citare il
D.Lgs 152/2006, il quale ha modificato sostanzialmente l’assetto e le
competenze in materia di difesa del suolo e di gestione delle risorse
idriche introdotto dalla preesistente normativa (DL 183/89), in quanto
ha disposto la ripartizione del territorio nazionale in otto Distretti
Idrografici
(come ho in parte accennato, la 183 prevedeva la
ripartizione territoriale in bacini Idrografici a carattere nazionale,
interregionale o regionale; con a capo l’Autorità di Bacino, organo
misto Stato-Regioni) e la soppressione delle esistenti Autorità di
Bacino, nonché il trasferimento delle relative funzioni alle Autorità
di Distretto. A queste ultime sono preposti organi di governo in cui è
preponderante la rappresentanza ministeriale rispetto a quella delle
Regioni.
Con il D.Lgs 152/2006 e le successive modifiche e integrazioni,
viene ufficialmente recepita la Direttiva comunitaria Quadro sulle
Acque 2000/60/CE, la quale prevede che gli Stati Membri predispongano
un Piano di Gestione delle acque, per ciascun distretto idrografico,
compresa la mitigazione del rischio idrogeologico tramite la
prevenzione e la previsione dello stesso.
Perché ritengo che questo passaggio normativo sia importante?
Perché rispecchia quell’accentramento dei poteri che sta avvenendo
a livello comunitario, che, partendo dagli aspetti finanziari legati
alla gestione della spesa pubblica, sta investendo sempre più tutti gli
altri aspetti legati alla gestione delle risorse collettive, comprese
quelle primarie come l’acqua.
3) Quali sono i principali fattori di inquinamento delle falde acquifere?
Sotto questo profilo, le attività umane che risultano più dannose
sono: l’attività industriale (nella quale vanno annoverati con tutti
gli onori gli inceneritori), sia con la produzione di acque reflue che
con quella di gas, polveri sottili e nanoparticelle; l’attività
agricola, quando si serve di pesticidi e concimi chimici; la
dispersione delle acque reflue
(come abbiamo visto particolarmente
presente nelle aree metropolitane); l’attività estrattiva delle materie
prime e delle energie fossili
(sia in alcune tecniche di perforazione
che in quelle estrattive: ne sanno qualcosa gli abitanti del Delta del
Niger); le discariche di rifiuti.
Una volta che la falda risulta inquinata, anche se si corre ai
ripari eliminando la fonte d’inquinamento, i tempi di recupero possono
essere dell’ordine, a seconda del tipo di falda e della sua entità,
anche di centinaia di anni.
4) Dunque, abbiamo individuato uno dei
motivi per cui opporsi agli inceneritori. Visto che, in provincia di
Roma, ad Albano Laziale, vi è una forte protesta contro la prospettiva
di averne uno, potresti descrivere la situazione idrica locale?
Andando all’esempio di Albano, esso è situato nella struttura dei
Colli Albani. Ossia nel cosiddetto Vulcano laziale, che è di forma
pseudocircolare, costituito da un edificio principale che nel momento
di maggiore attività doveva sfiorare i 2000 metri di altezza, e
caratterizzato da un’area di caldera (l’area dei Pratoni del Vivaro) e
da vari coni di eruzione, alcuni dei quali occupati da laghi (Albano e
Nemi) e altri rappresentanti i rilievi oggi più alti che sfiorano i
1000 m di altitudine, come Monte Cavo e Maschio delle Faete, nel Comune
di Rocca di Papa.
Anche la struttura dei Colli Albani – come quella di altri
apparati vulcanici del Lazio - è caratterizzata da una notevole
eterogeneità dei litotipi sia in senso verticale che laterale. Ciò ha
determinato una idrogeologia complessa, con la formazione di un
acquifero multistrato
(3) caratterizzato da
tante falde sospese più o meno piccole (la superficie libera di due di
queste emerge e forma i due laghi Albano e di Nemi) al di sopra della
grande falda di base cui attingono con pozzi profondi molti comuni dei
Colli, compreso quello di Albano.
Alcune di queste sorgenti assicurano, almeno in parte,
l’approvvigionamento idrico a molti comuni dei Castelli. Almeno in
parte perché diversi Comuni sono costretti ad estrarre l’acqua,
mediante pozzi a volte profondi centinaia di metri, della falda di base
del sistema vulcanico.
Lo conferma proprio il caso di Albano laziale,
il cui
approvvigionamento idrico è assicurato – come per i comuni di Castel
Gandolfo ed Ariccia- dalla sorgente di Malafitto, ma solo in parte. In
sostanza, Albano Laziale è costretto, per soddisfare il suo fabbisogno
fabbisogno, a pompare l’acqua da pozzi le cui quote di fondo sono in
diversi casi al di sotto del livello del mare, attingendo appunto dalla
falda di base del massiccio vulcanico.
In tali condizioni, l’attività di incenerimento dei rifiuti
diviene pericolosa specialmente per la falda basale, che è
geometricamente più esposta ed ha un’area di ricarica
(4) molto
più vasta rispetto a quella delle piccole falde sospese, poste a quote
superiori e meno raggiungibili dagli inquinanti atmosferici di un
eventuale inceneritore ubicato verso la pianura (naturalmente, sia pure
in misura minore, anche le seconde sarebbero comunque sottoposte al
rischio di inquinamento).
L’inquinamento prodotto da un inceneritore può essere studiato
osservando il bilancio gestionale di materia associato alla sua
attività: per una tonnellata di rifiuto incenerita in entrata, compresi
l’aria necessaria alla combustione, gli additivi per il trattamento dei
fumi e circa 2000 metri cubi di acqua per il raffreddamento e lo
spegnimento delle scorie, escono circa 6000 metri cubi di fumi
contenenti nitrati, solfati, polveri sottili, nanoparticelle, metalli
pesanti, diossine e furani e acqua di scarico contenente idrocarburi
policiclici aromatici, metalli pesanti e diossine.
I fumi distribuiscono i microinquinanti, i quali si vanno a
depositare sul suolo, su un’area vastissima. Alcuni di questi per
l’azione delle precipitazioni e delle acque percolanti possono
raggiungere la falda ed inquinarla. Altri vengono trattenuti dal suolo,
che in tal senso funge da filtro protettore ma rimane inquinato a sua
volta.
Non dimentichiamo che nell’area comunale di Albano Laziale è già
presente una discarica, in località Roncigliano, e che alcuni rilievi
dell’Arpa hanno individuato nelle acque sotterranee prelevate dai
piezometri
(5) di monitoraggio,
concentrazioni di benzene, tribromometano, dibromoclorometano, floruri
ed altri inquinanti come i metalli pesanti ben oltre i limiti di legge.
Le discariche di rifiuti indifferenziati hanno una potenzialità
inquinante notevole grazie all’azione del percolato.
Il percolato è un
liquido che trae origine prevalentemente dall'infiltrazione d'acqua
nella massa dei rifiuti o dalla decomposizione degli stessi.
Esso è un
refluo con un tenore più o meno elevato di inquinanti organici e
inorganici, derivanti dai processi biologici e fisico-chimici
all’interno della discarica, contenente anche i metalli pesanti.
Nelle moderne discariche si cerca in tutti i modi di isolare la
massa di rifiuti dal suolo che li contiene per mezzo di membrane
impermeabili e, mediante sistemi di drenaggio, si cerca di convogliare
il percolato prodotto in vasche di raccolta, da cui deve essere
prelevato e depurato attraverso lunghi e complessi processi
chimico-fisici.
Ma malgrado tutti i buoni intenti non si riesce mai ad ottenere
una impermeabilizzazione perfetta per lungo tempo. Lo dimostrano le
analisi che vengono fatte dai piezometri di controllo, dove nelle falde
sottostanti vengono trovate spesso concentrazioni oltre i limiti di
legge di inquinanti tipici dei processi biologici, chimici e fisici che
avvengono all’interno dei rifiuti indifferenziati delle discariche.
5) Hai anticipato la domanda successiva, ma visto che ci
siamo, ci interesserebbe sviluppare il discorso relativo agli effetti
di discariche ed inceneritori sulle risorse idriche e sul territorio in
termini più concreti, magari sulla base di esempi …
Intanto, va specificato che tra i due tipi di impianti
esistono delle differenze sia nella composizione chimica degli
inquinanti che nelle modalità di diffusione degli stessi.
Gli inceneritori provocano un inquinamento più di tipo areale
(se
escludiamo le acque di scarico che diamo per scontato che dovrebbero
essere raccolte e depurate prima di essere immesse nel reticolo
idrografico naturale), che ha la capacità di diffondere le sostanze
inquinanti in un’area molto più vasta ma in maniera meno concentrata;
al contrario le discariche provocano un inquinamento molto più
concentrato sia nella grandezza delle superfici interessate che nella
densità degli inquinanti. Si potrebbe dire che mentre la discarica è il serial killer
specializzato delle falde, l’inceneritore è meno schizzinoso nella
scelta delle sue vittime, avvelenando direttamente l’atmosfera e
indirettamente tutto ciò che entra a contatto con questa: colture,
pascoli, suoli, acque superficiali e sotterranee e ovviamente i nostri
polmoni.
Esempi di falde inquinate direttamente da discariche ce ne sono
molti, purtroppo, in giro per l’Italia e non solo; determinare l’entità
dell’inquinamento di una certa falda da parte di un determinato
inceneritore è un problema più complesso, perché come abbiamo visto non
lo fa in maniera diretta e perché spesso “unisce le sue forze” ad altri
impianti industriali inquinanti magari presenti nelle sue vicinanze.
Malgrado questo però la domanda di buon senso che viene spontanea è:
perché dotarci di un impianto altamente inquinante, dannoso sia dal
punto di vista dell’inquinamento che del bilancio energetico, quando è
possibile sostituirlo con una filiera di trattamento molto meno
impattante e molto più redditizia dal punto di vista del bilancio
energetico finale del processo del trattamento dei rifiuti?
Esempi di falde inquinate dal percolato delle discariche ce ne sono molti.
A Malagrotta, dove persiste la discarica di rifiuti indifferenziati
più grande d’Europa, i prelievi effettuati dall’Arpa rivelano che i
valori limite fissati dalla normativa di settore per solfati, ferro,
manganese, arsenico, cromo totale, nichel, alluminio, piombo, benzene,
p-xilene, cloruro di vinile, diclorobenzene, tetracloroetilene e di
altri pericolosi inquinanti risultano regolarmente superati in 22 dei
39 piezometri installati sia all'interno che al di fuori del bacino di
drenaggio. Per l'arsenico e il benzene i limiti di legge sono stati
superati, in alcuni prelievi, di 20 o 30 volte.
La discarica di Borgo Montello, a Latina, secondo una relazione
tecnica è la principale responsabile della presenza di zinco, piombo e
rame nelle acque della falda locale.
Anche la discarica dell’Inviolata nel Comune di Guidonia
Montecelio, gestita dalla stessa società di Malagrotta, ha problemi di
inquinamento locale delle acque sotterranee.
Fuori dalla Regione sono diversi gli esempi di inquinamento da discarica, da nord a sud dello stivale.
La discarica Ca’ Filissine, nel comune di Pescantina (VR), fin dal
1987 ha smaltito rifiuti solidi urbani, ma dal 2006 è stata posta sotto
sequestro preventivo dalla magistratura per sospetta contaminazione
della falda acquifera, infatti dalle analisi effettuate dall'Arpa,
nell'ottobre del 2011, hanno confermato che la qualità delle acque di
falda è seriamente compromessa, essendo stata riscontrata la presenza
di ammoniaca, cloruri, sodio, manganese, ferro, cromo, potassio.
Inquinate risultano le falde acquifere attorno alla discarica di Bellolampo, presso Palermo.
Comunque è bene ricordare che non sono solo le discariche e gli
inceneritori ad essere potenziali impianti inquinanti delle falde
acquifere, ma come abbiamo visto anche le pratiche agricole che
prevedono l’uso di pesticidi, molte tipologie di impianti industriali
del settore primario e secondario, ma anche la non corretta gestione
integrata delle risorse idriche.
Ne deriva un quadro della situazione italiana per cui sono moltissime le situazioni già compromesse o a forte rischio.
A Cremona è in atto un processo contro la Tamoil, accusata di
avvelenamento delle acque destinate a uso umano. In Veneto, nel maggio
2011, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) di
Treviso ha riscontrato la presenza di mercurio nei pozzi dei comuni di
Preganziol, Treviso, Casier e Quinto. In Abruzzo, nella Val Pescara,
nelle falde sono stati riscontrati cloroformio, tetracloruro di
carbonio, esacloroetano, tricloroetilene, triclorobenzeni, metalli
pesanti.
Una recente indagine Ispra (Istituto superiore protezione e
ricerca ambientale) ha evidenziato per le acque superficiali italiane
che il 47.9% dei campioni esaminati è contaminato da pesticidi e per le
acque sotterranee una contaminazione nel 27% dei casi.
Ricordiamo inoltre la Pianura Padana, maglia nera
dell’inquinamento delle falde a causa dell’agricoltura intensiva
praticata da anni. Nelle falde padane sono state riscontrate sostanze,
come l’atrazina, ormai vietate da anni, ma ancora persistenti della
falda a causa della scarsa intercambiabilità idrica.
6) La situazione che descrivi è a dir poco desolante. Sono
rimasti, però, esempi positivi di gestione (e protezione) delle risorse
idriche,
in Italia o altrove?
In generale, lo sfruttamento delle falde acquifere
minerali non può certamente essere annoverato tra gli esempi positivi
di gestione delle risorse idriche, sia perché rappresenta
l’appropriazione privata di risorse collettive appartenenti a tutta la
comunità, sia perché produce un enorme inquinamento per la plastica
prodotta e per le emissioni gassose legate ai trasporti. Per non
parlare poi della qualità e della sicurezza igienica delle acque, di
gran lunga inferiore a quella degli acquedotti (i controlli della
qualità negli acquedotti hanno frequenza giornaliera e devono
rispettare dei limiti molto più restrittivi; nella migliore delle
situazioni i controlli delle acque minerali hanno frequenza annuale e
sono tenuti a rispettare dei limiti molto più indulgenti).
Non conosco gestioni virtuose delle risorse idriche; anche nella
“rossa” Emilia, come abbiamo visto, le falde della Pianura Padana sono
tra le più inquinate al mondo, specialmente grazie alla coltivazione e
all’allevamento intensivi, votati al profitto capitalista, che “impone”
l’uso di pesticidi e concimi chimici e la concentrazione innaturale di
allevamenti.
Forse attualmente un tentativo di stabilire un corretto rapporto
tra risorsa ed utilizzatore lo troviamo soltanto nelle lotte delle
comunità indigene del centro e del sud America o forse dovremmo
considerare quel tentativo storico portato avanti dalle comunità di
lavoratori e lavoratrici, per un periodo troppo breve purtroppo, nella
Spagna del ’36, dove si era iniziata una sperimentazione di gestione
dei beni collettivi (non solo risorse, ma anche beni collettivi come la
sanità,
i trasporti, il welfare in generale) dove non erano ne le
imprese private o le oligarchie statali a gestirli, perché vigevano
l’autogestione e l’autogoverno dei tecnici e dei lavoratori impiegati
nella produzione e distribuzione delle risorse e dei beni stessi.
Nel mondo da questo punto di vista, almeno io, non conosco
gestioni virtuose visto che l’inquinamento delle falde è comune a tutti
i paesi industrializzati ed emergenti: gli USA e l’India ne sono
l’esempio più eclatante, dato che sono i paesi a più alta
concentrazione di veleni nell’acqua. Con un campionario completo di
tutti gli inquinanti nel primo e con una presenza molto fitta di sali,
fluoruri, piombo e pesticidi nel secondo.
Qualche altro esempio: nello Sri Lanka,
il 79% dei pozzi risulta
fuorilegge per i troppi nitrati (lo stesso si può dire per i pozzi
della Romania e della Moldavia), in Gran Bretagna 350 stazioni di
servizio Shell hanno contaminato gli acquiferi con i carburanti, mentre
in Francia spesso si assiste, a corollario dei “piccoli” incidenti
nelle centrali nucleari, all’inquinamento radioattivo delle acque
superficiali e sotterranee.
7) Visto l’impatto di discariche ed inceneritori, quali
sono, secondo te, le vie da battere per una gestione più razionale del
ciclo dei rifiuti?
Non sono un esperto in materia. Tuttavia basta guardarsi
intorno
(nel senso più ampio del termine) per scoprire in tutto il
mondo efficienti di sistemi di gestione che vanno nella direzione del
concetto “rifiuti zero”,
a partire dal concetto di riutilizzo, per
passare a quello di differenziazione e riciclo. Semplici tecniche che
potrebbero in poco tempo ridurre la massa conferita in discarica del
70-80%, anche a Roma.
Quelli che i gestori istituzionali della filiera dei rifiuti
chiamano termovalorizzatori sono in realtà dei “termosvalorizzatori”
delle materie seconde. Se infatti consideriamo la EROEI (Energy
Returned On Energy Invested), ossia il rapporto tra energia ricavata ed
energia spesa di una filiera che prevede l’incenerimento, questa
valorizzazione in guadagno è una bufala. Infatti, l’energia ottenuta
con l’incenerimento non compensa assolutamente la somma delle energie
spese per estrarre le materie prime, per progettare e produrre gli
oggetti, nonché per il trasporto e per l’incenerimento degli stessi.
Questi impianti possono sopravvivere solo grazie a incentivi
statali ed a meccanismi per cui la “materia prima” da incenerire,
contenente l’energia da estrarre, arriva senza spese. Cioè a spese
della collettività che è quella che paga i costi dell’intera filiera,
sia sottoforma di bollette che di quota parte delle tasse destinate
agli incentivi. Oltretutto la presenza di questi impianti, che per ammortizzare al
massimo le spese devono bruciare enormi quantitativi giornalieri di
rifiuti, ostacola la nascita di pratiche più sostenibili come il
riutilizzo, la differenziazione ed il recupero, in quanto drenano
voracemente tutti i rifiuti presenti nel territorio di ubicazione.
Dei danni ambientali ne abbiamo già parlato, rimane solo da dire
che i residui dell’incenerimento non sono zero, non si distrugge il
rifiuto completamente, ma come residuo del processo rimangono delle
scorie che rappresentano circa il 20% del peso iniziale, oltre alle
ceneri che ne rappresentano circa un 5%.
Qualcosa, se non risulta contaminato, può essere recuperato, come
qualche metallo, ma molto deve andare in discarica come rifiuto
speciale! Ma come, gli inceneritori non dovevano risolvere il problema
delle discariche?
Una gestione corretta prevede prima di tutto una diminuzione alla
fonte del rifiuto, con una minore produzione degli imballaggi, una
cultura diffusa del riutilizzo, nonché tecniche di trattamento a freddo
ed infine il recupero delle materie prime e seconde. E’ evidente che
questo modello porta sicuramente a dei risultati più efficienti di una
filiera che prevede l’incenerimento inquinante della materia.
Capisco che questi ragionamenti vanno contro la cultura del
consumismo, necessaria all’accumulazione capitalistica, ma almeno noi
che non ci guadagniamo niente, ma che anzi abbiamo tutto da perdere,
perché costretti a vivere in ambienti sempre più inquinati, dovremmo
cominciare a pretendere che i gestori istituzionali cambino indirizzo.
Certo, la cosa migliore sarebbe riprendere l’esperimento iniziato 76 anni fa dai nostri compagni spagnoli.
Note:
1) Nel bilancio idrogeologico di un bacino,
l'evapotraspirazione è quella quota di acqua che esce dal sistema per
evaporazione o per traspirazione della copertura vegetale.
2) Le fosse imhoff sono la versione moderna dei vecchi "pozzi neri".
3) Per acquifero s'intende la roccia serbatoio che contiene la falda.
4) L'area di ricarica della falda è
quella parte di superficie terrestre dove, l'acqua meteorica che si
infiltra, va ad alimentare la falda stessa.
5) Si tratta di tubi collocati
(mediante esecuzione di un foro di sondaggio) verticalmente nei
terreni; la loro funzione è quella di controllare sia il livello che la
qualità delle acque di falda.
A cura de Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma