Un contributo di Cinzia Nachira, docente presso l'Università di Lecce e redattrice per il sito Jura Gentium, che approfondisce le cause e le conseguenze dell'operazione militare compiuta da Israele contro la striscia di Gaza.
L’ennesima aggressione militare israeliana contro la
martoriata Striscia di Gaza è tutto tranne che una sorpresa. Da molti
mesi oramai si aspettava solo di capire quale sarebbe stato il
bersaglio che avrebbe scelto di colpire il governo Netanyahu. Molti
osservatori sostengono che si tratta di una mossa elettorale di
Netanyahu e di Lieberman. Essi hanno fatto una lista comune per le
prossime elezioni del 22 gennaio, e questa tesi è indubbiamente
fondata, ma allo stesso tempo è limitativa. Certo, non sarebbe la prima
volta che ciò avviene.
Ciò che però costituisce,
sicuramente, un altro elemento che ha spinto il governo israeliano a
scatenare quest’ennesima aggressione contro la popolazione civile di
Gaza è il mutato assetto regionale, che ha prodotto, fra l’altro,
l’uscita dall’isolamento politico della direzione politica di Hamas.
Nessuno poteva equivocare il senso del cambiamento di alleanze avvenuto
nei mesi scorsi con la scelta di Khaled Meshaal, il leader di Hamas in
esilio, di spostare il proprio quartier generale da Damasco a Doha, in
Qatar. Questo cambiamento delle alleanze di Hamas ha sancito,
innanzitutto, la fine dell’asse con l’Iran. Questa decisione ha
dimostrato ancora una volta il pragmatismo che caratterizza Hamas.
All’indomani delle elezioni legislative palestinesi del 2006,
l’alleanza con l’Iran e con i suoi più stretti alleati nella regione,
la Siria di Bashar el Assad e gli Hezbollah libanesi, ha permesso a
Hamas di alleggerire l’assedio al quale la Striscia di Gaza è
sottoposta da sei anni.
Ma il cambiamento
politico nella regione a seguito delle rivolte che l’attraversano dal
2010 ha avuto come conseguenza l’ascesa in diversi paesi, innanzitutto
l’Egitto, dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è la branca palestinese.
Inoltre, anche se le rivolte in Medioriente e nel Maghreb non hanno
avuto la Palestina come protagonista di primo piano è bene non
dimenticare che, soprattutto in Egitto, alcune delle organizzazioni che
sono state la base della rivolta che ha portato alle dimissioni di
Mubarak sono nate sull’onda della solidarietà nel 2000 con la seconda
Intifada. Anche se la prima decisione del governo Morsi, dopo le
elezioni, è stata di rispettare i trattati internazionali stipulati dal
precedente regime, compreso ovviamente il trattato con Israele, non
poteva essere sottovalutato il fatto che comunque la Palestina non
cessava di avere un impatto importante all’interno.
L’ultima
aggressione israeliana, quindi, si iscrive in un contesto assai
differente e ben più complesso della precedente del 2008-2009. Inoltre,
i paesi del Golfo, che non sono esenti da manifestazioni interne – dei
quali si parla pochissimo, ma che non lasciano tranquilli i diversi
regni al potere, soprattutto in Arabia Saudita e in Barhein – sulla
scia di ciò che è successo altrove, hanno ben compreso che il loro
rinnovato protagonismo regionale e internazionale non poteva
“limitarsi” ad aiutarsi reciprocamente nel reprimere i propri popoli e
nel sostenere le opposizioni dei rivali. In questo quadro si inscrive
la visita dell’emiro del Qatar a Gaza nell’ottobre scorso. Hamas,
quindi, non ha colto solo l’opportunità di inserirsi a pieno titolo
nello scenario politico regionale, ma ha anche tenuto conto della
possibilità di imporre le proprie scelte alle altre organizzazioni
islamiche nella striscia di Gaza, innanzitutto il Jihad islamico.
Ciò
che è sempre stato chiaro ad Hamas è che dopo aver ottenuto il consenso
popolare attraverso la vittoria politica nei confronti dell’Autorità
Nazionale Palestinese, l’unico modo per consolidare il proprio potere e
raggiungere l’obiettivo di diventare protagonista a livello nazionale
palestinese era quello di riuscire a mettere fine all’assedio, in modo
da dimostrare a tutti i palestinesi, compresi quelli della
Cisgiordania, che i tormenti patiti non erano stati vani. Non è un caso
se durante l’attacco a Gaza, i leader di Fatah, Hamas e Jihad Islamico
e Fplp si sono precipitati a dichiarare la “fine delle divisioni”.
L’aggressione israeliana ha visto moltissime manifestazioni in tutta la
Cisgiordania, dove l’ANP è sempre più in difficoltà e dove l’intreccio
del disagio economico e quello politico riesplode sistematicamente. Ma
anche nella Striscia di Gaza il potere incontrastato di Hamas non è
stato esente, in questi ultimi anni, dall’essere criticato anche
duramente, soprattutto dai giovani che costituiscono una parte
determinante della popolazione di Gaza e che si sono opposti alla
crescente islamizzazione della società di Gaza.
È
chiaro che, come è già accaduto nella storia recente, della vicenda
palestinese si sono serviti i paesi arabi. Nello stesso Egitto, mentre
il governo era impegnato nelle febbrili trattative per raggiungere il
cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, proseguivano le manifestazioni
di piazza contro il presidente Morsi. Il quale grazie al successo
dell’opera di mediazione si è “concesso” un’ampiezza di poteri
superiore a quella di Mubarak. Evidentemente, lo scenario palestinese
non ha avuto l’effetto di sopire il proseguimento del movimento
popolare iniziato il 25 gennaio 2011.
Durante i
giorni infernali dell’attacco israeliano a Gaza, come nel caso del
massacro del 2008-2009, le strade delle città di molte capitali arabe,
e non solo, si sono riempite di migliaia e migliaia di persone. In
alcuni casi, come quello della Giordania, le manifestazioni di
solidarietà con i palestinesi di Gaza si sono intrecciate con quelle,
massicce, contro il governo e contro il carovita. È chiaro che
l’impegno istituzionale arabo verso Gaza, dove si sono recati tutti gli
attori in campo -- Qatar, Egitto, Tunisia, Lega Araba, Turchia -- ha
avuto un duplice obiettivo. Per un verso i governi si sono serviti
dell’indignazione popolare diffusa dalla strage di innocenti compiuta
anche questa volta. La strage è provata dai numeri: 162 vittime
palestinesi, se non di più, perché ancora non è chiaro il numero delle
vittime dei bombardamenti di mercoledì 21 novembre, poco prima
dell’entrata in vigore della tregua. Oltre i morti, sono stati 1000 i
feriti gravi, mentre in campo israeliano si sono contate 5 vittime,
alcune decine di feriti e pochi danni infrastrutturali. Per un altro
verso, rompendo l’isolamento politico di Hamas, i governi arabi
potranno nel prossimo futuro dettare condizioni allo stesso movimento
Hamas, che non può permettersi di perdere il consenso politico che
deriva da questo accordo. Nel 2009, al momento della tregua che pose
fine a “Piombo fuso”, Hamas uscì indebolito, mentre oggi il governo
islamico della Striscia di Gaza esce molto rafforzato sia a livello
palestinese che a livello regionale.
Nel contesto
regionale, i governi arrivati al potere dopo le recenti rivolte hanno
dimostrato di riuscire a ottenere dei risultati positivi più dei vecchi
regimi. In questo senso, il fatto che la Casa Bianca abbia spinto il
governo israeliano ad accettare un cessate il fuoco che non voleva, è
indice di una semplice circostanza: gli Stati Uniti hanno l’interesse a
consolidare i nuovi equilibri regionali, che sono gli unici che possano
garantire i loro interessi nella regione. E il governo egiziano ha
tutto l’interesse ad essere l’elemento chiave della stabilità della
regione. Da questo punto di vista, dopo aver minacciato di rimettere in
discussione gli accordi di Camp David del 1979 e aver raggiunto il
cessate il fuoco del 21 novembre (che rafforza politicamente Hamas), i
Fratelli Musulmani egiziani potranno tranquillamente rispettare gli
accordi.
In tutto questo, non è di secondaria
importanza il ruolo che sta svolgendo la Turchia. Questo paese, alleato
di Israele, dopo la strage di 9 cittadini turchi sulla Mavi Marmara --
una delle navi della Freedom flotilla che cercava di violare
l’embargo marittimo imposto a Gaza da Israele – nel 2010 ha rotto le
relazioni diplomatiche con Tel Aviv, ma si è ben guardato dal
rinunciare agli accordi militari. E non è da dimenticare che il premier
turco Erdogan è esponente del partito islamico -- l’AKP -- al governo
da diversi anni e cerca di assicurare un ruolo di leadership regionale
al suo paese, soprattutto a spese dell’Iran. Non a caso, nella giornata
in cui veniva trattata la tregua tra Hamas e Israele, il presidente del
parlamento iraniano ha dichiarato apertamente una cosa che tutti
sapevano dal 2006: l’Iran ha fornito a Hamas armi e materiale militare.
È stato un tentativo, assai maldestro in verità, sia di mettere in
difficoltà Hamas verso i suoi “nuovi” alleati, sia di ricordare agli
attori in campo che non potevano ignorare il fatto che l’Iran è sempre
pronto a ritornare in campo. Il tentativo iraniano ha avuto come unico
risultato immediato di offrire la possibilità a Netanyahu di sostenere
che il “vero problema” era l’Iran e quindi giustificare la firma di un
cessate il fuoco (che in ogni caso per Israele è stata una sconfitta
politica).
Inoltre, ed è questo uno degli aspetti
più preoccupanti, la società israeliana, nella sua componente ebraica,
ha avuto un notevole spostamento su posizioni oltranziste. Questo
ricorda la fine dell’aggressione del Libano nel 2006: un’aggressione il
cui scenario è stato vicino a quello di oggi e che finì con un ritiro
delle truppe israeliane dal sud Libano e un cessate il fuoco che per
quanto fosse squilibrato a favore di Israele, non c’è dubbio che fosse
anche il risultato di una sconfitta politica pesante. In quel caso le
manifestazioni del popolo israeliano contro il governo non mettevano in
discussione il “perché” fosse stata fatta la guerra, ma il “come la si
era persa”. Due anni dopo, quando si scatenò il massacro di “Piombo
fuso”, oltre l’80% dell’opinione pubblica israeliana si diceva
d’accordo con le scelte del governo. Oggi, durante la settimana di
bombardamenti indiscriminati su Gaza, la maggioranza dell’opinione
pubblica ebraico-israeliana ha manifestato sia il proprio sostegno
all’esercito, sia la propria contrarietà ad un’operazione terrestre che
avrebbe senza dubbio aumentato le perdite israeliane.
Dopo
il cessate il fuoco, il 75% degli ebrei israeliani ha dichiarato che
questo era una sconfitta. I riservisti ancora dispiegati ai confini di
Gaza si sono detti delusi dal governo. Shahul Mofaz, leader di Kadima
che sarà concorrente diretto della coalizione Netanyahu-Lieberman alle
prossime elezioni, definisce la tregua un cedimento. E il “pacifista”
A.B. Yehoshua invita il governo israeliano a dichiararsi in guerra
contro Gaza e auspica un assedio che tagli l’energia elettrica e i
viveri alla popolazione palestinese. Le parole di Yehoshua possono
sorprendere solo gli ingenui o i disonesti. Ma il dato grave e
preoccupante è che ad opporsi a questa aggressione è stata una frangia
assai marginale della società israeliana. Lo sciovinismo, il razzismo e
l’oltranzismo dei quali in questi ultimi dodici anni sono stati nutriti
gli israeliani -- oltre all’aumento esponenziale della violenza in una
continua escalation a partire dalla rioccupazione militare della
Cisgiordania del 2000 -- hanno dato purtroppo i loro frutti avvelenati.
Certamente,
così come era in parte “elettorale” quest’ultima aggressione, lo è
stata sicuramente anche l’accettazione del cessate il fuoco. Lieberman,
razzista notorio, non è mancato di franchezza nel dichiarare che sarà
compito del prossimo governo di “finire il lavoro” con l’invasione di
terra. Grazie alle pressioni internazionali, al nuovo quadro regionale
e alle elezioni politiche ormai prossime, questa escalation scelta da
Netanyahu ha le sembianze di un boomerang. Ma può darsi che anche le
previsioni di Lieberman non facciano i conti con la realtà. Alcuni
osservatori hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale l’accettazione
del cessate il fuoco da parte israeliana è stato un cedimento agli
Stati Uniti in cambio della concessione di una possibile via libera
all’attacco contro l’Iran. Questa tesi, però, non sembra molto fondata,
per tutte le ragioni già esposte.
La popolazione
di Gaza festeggia la fine dell’aggressione e Hamas, dichiarando il 22
novembre festa della “vittoria”, può, dal suo punto di vista, essere
molto soddisfatto. Ma tutti i problemi in campo palestinese restano
intatti, se non acuiti. Il presidente dell’Autorità Nazionale
Palestinese, Abu Mazen, essendo rimasto ai margini come mai in questi
anni, dopo aver tentato di svolgere un ruolo ha dovuto “congratularsi”
con Hamas per la sua vittoria. E per quanto sia assai dubbio che queste
congratulazioni siano sincere, Abu Mazen ha dovuto fare questo passo
per molti motivi. Anzitutto perché, dopo la cocente sconfitta alle
elezioni municipali in Cisgiordania, la spinta popolare all’unità è
stata tale che rischiava di ritrovarsi in una situazione impossibile da
gestire. All’interno dell’ANP, sia in Cisgiordania che all’estero,
molti esponenti di primo piano, ben prima che fosse firmato il cessate
il fuoco, avevano espresso giudizi pesantissimi sulla cosiddetta “via
del negoziato” che aveva mostrato tutta la sua debolezza. Di
conseguenza, anche se molti hanno usato il falso argomento
dell’annunciata richiesta presso le Nazioni Unite del riconoscimento
della Palestina come Stato osservatore, questa iniziativa non può in
queste condizioni fare da contrappeso al protagonismo di Hamas, che per
la prima volta è stato l’interlocutore diretto di Israele. L’iniziativa
presso le Nazioni Unite, quindi, anche se venisse fatta non potrebbe
più rappresentare un’ancora di salvezza per l’apparato dell’ANP.
Peraltro
è stato chiaro fin dall’inizio che, almeno in questa fase,
l’amministrazione statunitense, chiedendo ad Abu Mazen di rinunciare
all’iniziativa presso l’ONU, mirava a rendere meno difficile la
posizione del governo israeliano. Per quanto solo simbolica,
quell’iniziativa, pur non avendo alcuna possibilità di riuscire,
sarebbe stata per Israele un secondo smacco. Ma adesso, al di là sia
dell’esito che dell’eco che avrà l’iniziativa presso l’ONU, sta per
giungere il momento in cui Hamas sarà chiamato a dimostrare di non
avere a cuore soltanto il consolidamento del proprio potere a Gaza. In
questo senso, i missili lanciati da Gaza e che hanno sfiorato sia Tel
Aviv che i dintorni di Gerusalemme, erano un chiaro messaggio ai
palestinesi di Cisgiordania e ai palestinesi israeliani – un milione e
duecentomila persone – che vivono in segregazione razziale. La
situazione del movimento islamico palestinese per quanto esca
rafforzato dal cessate il fuoco potrà aggravarsi se dalla tregua non
riuscirà ad ottenere dei miglioramenti tangibili per i palestinesi di
Gaza.
Il popolo palestinese ha sicuramente dato
prova di infinita pazienza, attuando una resistenza quotidiana
all’occupazione, alla repressione, all’apartheid, all’assedio
e ai massacri. Ma nello stesso tempo occorre riconoscere che il popolo
palestinese non è fatto di soli eroi. Per questo è sicuramente positivo
che nell’accordo di tregua siano contenuti impegni per l’apertura dei
valichi e che dopo ventiquattro ore dall’entrata in vigore della tregua
Israele abbia autorizzato i pescatori di Gaza ad andare oltre le tre
miglia marittime e abbia deciso di ritirare il proprio esercito dai
confini di Gaza. Ma tutti questi elementi sono indeboliti dal fatto che
Israele nella sua storia non ha mai rispettato a lungo i suoi accordi.
In questo senso sono più che mai esplicite le dichiarazioni di
Netanyahu durante la conferenza stampa del 21 novembre nella quale
annunciava l’accettazione del cessate il fuoco: “Ora io mi rendo conto
che ci sono cittadini che si attendono un’iniziativa militare più forte
e potremo benissimo doverla attuare. Ma al momento, la cosa giusta per
lo Stato d’Israele è esplorare a fondo questa possibilità di
raggiungere un cessate il fuoco a lungo termine.”
Questo
accordo e soprattutto il fatto che esso abbia aperto la via a dei
negoziati sulla fine dell’assedio è sicuramente un boccone molto amaro
per Israele, ma occorrerebbe più prudenza nel definirlo una “sconfitta
storica”. Infatti, sempre nella stessa conferenza stampa del 21
novembre Netanyahu ha affermato “Devo dire che abbiamo fatto questo con
il forte appoggio delle principali autorità della comunità
internazionale.[…] Desidero ringraziare, in particolare, il presidente
Obama per il suo risoluto sostegno alle azioni di Israele, alle sue
operazioni e al diritto di Israele all’autodifesa.” Il premier
israeliano non ha torto: nessun governo o istituzione internazionale ha
messo in dubbio che Israele ha scatenato l’aggressione a Gaza per
“autodifesa”, ma alla fine il cessate il fuoco è giunto per calcoli di
interesse e non per nobili motivi.
Per altro, il
ruolo egemone dell’Egitto per un verso consolida le relazioni con gli
Stati Uniti e per un altro verso toglie agli americani ogni
responsabilità rispetto alle violazioni che Israele potrà commettere. E
lascerà inoltre a loro la possibilità di non incrinare le relazioni di
“amicizia forte come la roccia” (Hillary Clinton) con Israele, tenendo
contemporaneamente sotto minaccia l’Egitto. Inoltre, enorme prudenza è
necessaria anche nel sostenere che ora l’amministrazione statunitense,
dopo la vittoria elettorale di Barack Obama, possa spingersi in una
direzione alternativa a quella che tradizionalmente ha caratterizzato i
rapporti tra gli Stati Uniti e Israele. Un conto è un accordo dettato
da circostanze contingenti, altro è pensare che gli Stati Uniti e il
loro presidente si siano convertiti al rispetto dei diritti dei
palestinesi. Adesso Netanyahu ammette la necessità di “esplorare a
fondo questa possibilità di raggiungere un cessate il fuoco a lungo
termine”. Ma Jaabari -- il leader dell’ala militare di Hamas,
assassinato da un’aggressione “mirata – già nel marzo scorso era in
procinto di proporre una tregua di quindici anni. Questo non è un
dettaglio secondario, perché significa che la situazione stava già
andando in questa direzione. Ma è altrettanto evidente che con l’ultimo
massacro Israele ha tentato di indurre Hamas alla capitolazione. Non
c’è riuscito, anzi ha ottenuto risultati opposti a quelli sperati. Ma
in gioco vi è anche il destino degli altri settori del popolo
palestinese. Allentare la pressione sul fronte di Gaza consente a
Israele di avere le mani più libere in Cisgiordania, rendendo
definitivi i “confini” determinati dalla costruzione del Muro, rendendo
irreversibile la colonizzazione di larga parte della Palestina. In
questo contesto, i tre soggetti che hanno un ruolo determinante – il
governo israeliano, l’ANP e Hamas – sono tutto tranne che affidabili.
Soprattutto perché è chiaro che Israele farà di tutto per impedire che
le leadership palestinesi ritrovino l’unità, vero ostacolo ai piani di
colonizzazione. Ed in questa direzione non c’è nulla di più pericoloso
dello scontro militare. La sproporzione sul campo è tale che questa
scelta non può che avere come risultato finale, tutt’altro che
auspicabile, l’avviamento di nuove aggressioni da parte di Israele che
ne possiede i mezzi.
Il quadro complessivo, come
è evidente, è tutt’altro che semplice e rassicurante. L’unica vera
speranza è che all’interno dello scenario mediorientale e palestinese
emerga una vera alternativa politica che rimetta in discussione gli
assetti politici che fino ad oggi, in un modo o nell’altro, sono sempre
stati funzionali ad interessi estranei, se non ostili, a quelli dei
popoli della regione. E tutto ciò al di là delle buone intenzioni (di
cui notoriamente è lastricata la via dell’inferno) e dei proclami
roboanti di vittorie “definitive”.